Cultura dei Campi Coltivati tra passato, presente e futuro

Intervento al convegno su Bioregionalismo, Ecologia Profonda e Spiritualità Laica, tenuto al Ribalta di Vignola il 9 febbraio 2013

Sono agricoltore di scuola e tradizione organica, agronomo e storico autodidatta che, oltre alla pratica empirica, ricerco e studio da decenni  la mia materia, l’Agricoltura.

Che non intendo solo come semplice coltivazione biologica o biodinamica dei campi, o un settore economico del vigente sistema di mercato capitalista globale, ma nella sua piena accezione originaria latina del termine il quale significa: cultura dei campi coltivati, ossia arte/mestiere, scienza, società, economia e spiritualità; cultura del rapporto diretto tra uomo  e  madre terra, tra humanus e humus, rapporto di humilitas, virtù opposta alla superbia: l’uomo è terra e tornerà inumato alla terra come ceneri di azoto, fosforo, potassio …

La mia conoscenza agronomica ed ecologica segue la linea storica che va dai cacciatori-raccoglitori agli allevatori e coltivatori, in cui i primi si evolsero, tutti anche artigiani, migliaia di anni fa, creando quella cultura dei campi coltivati, arrivata sino a noi pochi decenni orsono, come Civiltà Contadina. Non la civiltà urbana, perché gli agricoltori non vivono nelle città e quella rurale le fu sempre parallela e complementare.

I primi scrittori di agricoltura dei quali sono rimaste le opere sono latini e riportano, a loro dire, un sapere che già fu loro tramandato da tempi remoti. Ad uno di questi letterati agronomi  si deve la definizione originale  dell’Agricoltura: “Non solo è un’arte, ma anche necessaria e di assoluta importanza; ed è anche scienza, di quello che sia da coltivare e produrre in ciascun campo, affinché la terra renda in perpetuo il massimo dei frutti”.  (“Non modo est ars, sed etiam necessaria ac magna; eaque est scientia, quae sint in quoque agro serenda ac facienda,quo terra maximos perpetuo reddat fructus”.( Marco TerenzioVarrone: De re rustica- Libro I, cap.3)

La sostenibilità agro ambientale che oggi andiamo cercando era già caratteristica degli antichi fondi agricoli, complessi organismi viventi, unità di ecosistema coltivato, che riproducevano i cicli perenni e rinnovabili di quelli naturali e selvatici.

Nel medioevo  solo i monaci cistercensi  mantennero memoria e pratica dell’Agricoltura classica, sino a che, nel Rinascimento,  il corpus di testi noti nell’insieme come De Re Rustica furono riscoperti e rivalutati e divennero il fondamento della nuova scienza agronomica europea, la quale fu diffusa, nei secoli successivi, da diversi autori e scuole che  ne ripresero e rielaborarono principi e contenuti, sul modello della villa rustica autosufficiente romana, diversa dal latifondo schiavista.

Quindi, intorno alla metà dell’Ottocento, l’Agricoltura organica, giudicata arretrata, superstiziosa e legata all’ancien regime, di cui era il fondamento dell’economia, fu sconfitta a livello accademico e politico dal  materialismo scientifico, il quale vi oppose il “progresso” dell’agrochimica inorganica ed industriale moderna che oggi predomina.

Nonostante i profondi cambiamenti politici, culturali, sociali ed economici portati dalla rivoluzione liberale borghese nell’800, l’agricoltura organica tradizionale è però sopravvissuta resistendo nelle campagne non solo sino a pochi decenni fa, ma è continuata, in forme e metodi aggiornati come contemporanea agricoltura biologica e biodinamica.

Dalla fine anni ‘70 si parla inoltre di agricoltura permanente, o Permacultura e di Agro-ecologia, che non sono affatto nuove scienze, ma hanno radici profonde sino a quei cacciatori raccoglitori da cui tutto ebbe origine e si inseriscono quindi in un filo conduttore storico e millenario di tempo ciclico, e non lineare  di sviluppo illimitato e del sempre più nuovo che avanza.

Questo per il semplice motivo che le cosiddette leggi naturali , le quali sono dedotte e misurate dall’osservazione dei cicli rinnovabili e perenni di energia solare e materia vivente, sono immutabili nel tempo e il rapporto uomo-terra madre non se ne discosta, né può farlo, senza uscirne dai suoi parametri biologici, fisici e chimici, andando contro natura.

La catena alimentare è per noi umani di latitudini temperate la catena del pascolo e del detrito, formata da anelli che sono agganciati l’un l’altro in interrelazione e che non possono essere infranti dall’uomo.

In particolare, l’anello tra vegetali ed erbivori ruminanti, che trasformano la materia vegetale in humus fertile, è il fondamento dell’agricoltura organica. Oggi abbiamo sostituito l’humus fertile con i concimi chimici, tolto agli erbivori ruminanti la loro funzione primaria, li abbiamo rinchiusi in allevamenti intensivi  come macchine da carne e da latte e il loro letame è considerato rifiuto industriale, carico com’è di residui di antibiotici.

Altre considerazioni per completare il quadro del mio discorso.

L’agricoltura organica tradizionale ed i suoi modelli sono finiti in secondo piano e progressivamente il loro impianto si è disgregato, colpiti al cuore da leggi, burocrazie e tasse del sistema di mercato capitalista “liberale”ed industriale, basato sul profitto e lo sfruttamento e non più sulla rendita.  Sono mutati paesaggi, società ed economia, in modo definitivo dalla seconda metà del secolo scorso, ma questo processo era iniziato, lento ed inesorabile almeno cent’anni prima, qui in Italia, alla sostituzione del sistema monetario aureo, sovrano e stabile, legato al valore del grano e del pane, delle merci artigiane, dell’economia produttiva reale, con quello cartaceo a inflazione e debito illimitato, utile solo alla speculazione finanziaria  e usuraia.

Culture rurali millenarie non si abbattono così facilmente con una rivoluzione da parte di una minoranza di ricchi borghesi e neoaristocratici che conquista il potere: per cambiare il paradigma mentale dell’uomo, strappandolo dalle sue radici native in natura, dalle sue conoscenze pratiche e modo di vita, è occorso un condizionamento applicato a più di una generazione, sino a cancellare ogni memoria storica e recidere il filo che unisce uomo a Natura. Molto più difficile è riallacciare ora questo filo.

Il nonno contadino è distante anni luce dai nipoti cittadini, come lui lo era già, pur molto meno, da suo padre e suo nonno, già “corrotto” dai tempi nuovi e dall’avanzare  ed imporsi di quello che per me,  e non solo, per vari suoi aspetti ed effetti è un falso progresso perché deriva da un modello di sviluppo illimitato in un sistema come quello terrestre che è invece limitato e a ciclo chiuso.

La memoria storica è comunque nei cromosomi, siamo parte inscindibile della natura terrestre,  alla quale il modo di vita urbano moderno è sostanzialmente artificiale e alieno, memoria che rimane  brace sotto la cenere di archetipi lontani di vita naturale, cui questo odierno sistema economico preclude però di fatto ogni via di realizzazione.

Mi riferisco a quell’istinto “primordiale” che indirizza vari individui, oggi, ad un ritorno onirico alla terra e in seno alla vita naturale, ma che si traduce nei fatti, spesso, in avventurismi inconcludenti e parziali nei risultati, che causano anche delusioni, nel tentativo di creare ex novo un modo di vita rustica , ma sulla base di paradigmi propri della cultura progressista urbana: chi va in campagna si porta dietro il proprio modello cittadino cui è stato educato, le proprie abitudini cittadine, proprie interpretazioni delle leggi naturali, creando ibridi con compromessi e contraddizioni, i quali risultano poi di fatto o in situazioni estreme o nello rientrare negli schemi da cui si era cercato di uscire.

Ci si aggrappa anche ad altre culture lontane, spuntandone alcuni suggestivi elementi ed adattandoli, innestati a nuovi impianti, si formulano nuove teorie ideologiche, per colmare un vuoto che indubbiamente si è formato nello sviluppo di una visione materialista della realtà. Stiamo cercando nuove identità.

Oggi, l’agricoltura biologica è settore del mercato di cui sta alle regole, essendo pressoché totalmente incapace, quanto impossibilitata, di esprimere una propria autentica cultura ed economia rurale. Si producono monocolture industriali con “metodo” biologico, sacrificando il creare unità organiche di ecosistema coltivato, come si dovrebbe in teoria, perché sarebbe solo una spesa che non produce profitto e neppure reddito, ed oggi, il fine del lavoro agricolo, anche bio, non è il lavoro in sé a produrre auto sostentamento e surplus per il mercato, a produrre un modo di vita più autentico e felice in cui prendersi  cura dell’ambiente e dei nostri simili, ma il denaro, i cui valori non coincidono con quelli naturali, etica compresa.

 Certo è che, nonostante il paradigma classico portante della villa rustica, non si tratta affatto, da parte mia ,di sostegno nostalgico del modello economico e sociale antiquato, dei contadini mezzadri  del podere tosco-emiliano. Ma la medesima agronomia ed economia era comune anche a contadini liberi, senza padroni, con possesso quindi diretto di propri mezzi di produzione, associati per convenienza reciproca  in rete solidale e locale di villaggio, con baratti e scambi d’opera, con la disposizione di terre ad uso civico.

Così fu, ed è un bene che la struttura dell’antico classismo feudale sia decaduta, ma si è buttata via l’acqua sporca con il bambino,anzi il contadino, all’imporsi di quel binomio neoclassista di borghesia capitalista e proletariato, nuovi padroni e nuovi servi, alienati, questi ultimi, di ogni mezzo proprio di produzione per auto sostentamento, consumatori passivi, risorsa umana lavorativa inurbata da sfruttare in  economie industriali.

È andata così, come contadini, paisan, campesinos, nativi cacciatori, pescatori e raccoglitori del pianeta, siamo dalla parte dei vinti, avrebbe potuto andar meglio, se il modello di sviluppo avesse con lungimiranza e arte di buon governo tenuto conto che chi lavora la terra, chi vive in natura, ha un’importanza fondamentale nella custodia e gestione degli ecosistemi coltivati e naturali, e questo a vantaggio anche e non ultimo di chi vive in città. Non stiamo parlando dei moderni imprenditori agricoli con mega trattori e diserbanti, dei bovini chiusi nei lager, munti e macellati come oggetti senz’anima.

Nei tempi che ci attendono, in cui l’agrochimica basata sul petrolio avrà una fine, e si dovrà per forza rivolgere lo sguardo indietro alla terra che ci nutre, ci accorgeremo che tanta è andata sprecata sotto cemento ed asfalto, molta altra resa sterile. Questa crisi economica che è di sistema e non di mercato, non solo sta creando povertà e disoccupazione ma rivela tutta l’insostenibilità ambientale ed umana del sistema stesso e richiama la necessità di soluzioni possibili che non sono certo l’emigrazione su altri pianeti o le modificazioni genetiche di piante ed animali. Piuttosto potrebbe essere il riprendere in considerazione economie locali a sovranità alimentare e monetaria, in cui l’uomo sia ricollocato al centro di modi di vita più naturali,  consapevoli che è la terra fertile la base della nostra sopravvivenza e prodursi alimenti e materie prime organiche in modo sostenibile e rinnovabile è, da sempre,  ricchezza della civiltà umana.



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