La cultura agricola dall’antichita’ ad oggi

Incontro con Alberto Grosoli, agricoltore biologico

e studioso appassionato di storia dell’Agricoltura

Lunedì 19 gennaio 2015

ore 20.30

Presso Sala AUSER, via Terranova 71

Modena

organizzato da GASMO (gruppo di acquisto solidale di Modena)

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INTRODUZIONE

“Omnium autem rerum, ex quibus aliquid adquiritur, nihil est agricultura melius, nihil uberius, nihil dulcius, nihil homine libero dignius. (Cicerone, “De officiis, I)

(Fra tutte le attività economiche la più nobile, la più produttiva, la più gradita, quella più degna di un uomo libero è l’agricoltura)

Parlando di storia dell’agricoltura, è sottinteso si tratti di agricoltura organica. L’attuale agrochimica ha la sua genesi “ufficiale” nel 1840, con la pubblicazione della teoria minerale di Justus Von Liebig e la nuova scienza agraria del progresso, di pari passo con l’affermazione del capitalismo finanziario e speculativo di banche, borse e “corporations”, si avvia a sostenere l’industrializzazione delle campagne, il libero mercato delle  merci agricole, fino ad oggi, con tutte le conseguenze a noi visibili e tangibili.

Cos’è la teoria minerale? Le piante necessitano di elementi minerali che assorbono dal terreno, e letame e rotazioni non sono sufficienti a reintegrarne l’asporto e “verrà un giorno che i campi saranno colpiti da sterilità” (pag 23) . E’ l’ interesse dell’agricoltore quindi, come quello dell’intera società, che egli ottenga dei prodotti sempre più elevati  e per un tempo illimitato. Se la composizione del suolo non conviene alla pianta egli non ha la scelta delle sue colture che in apparenza, perché non tocca a lui ma al suolo scegliersi le piante che gli convengono e qui sono i limiti dell’agricoltura organica. Se l’uomo vuole dominare la natura deve conoscerne perfettamente le leggi “naturali” o ne sarà schiavo. Quando una nuova dottrina scientifica si innalza in luogo della dominante, questa non è uno sviluppo ulteriore di quest’ultima ma la sua antitesi. La nuova teoria della nutrizione delle piante si trova in un simile rapporto con l’antica: questa ammetteva che la nutrizione agricola e quindi la crescita era di natura organica, la nuova teoria invece ammette che la nutrizione di tutte le piante, escluso i funghi, è di natura inorganica. A questa nuova teoria, essendo in opposizione completa con l’antica dottrina, le si diede il nome di teoria minerale.

Lettere chimiche (1858) pag 233: “La dottrina che ritiene necessaria la produzione del concime per mezzo delle piante da foraggio e quindi il mantenimento del bestiame per poter coltivare i campi è una dottrina erronea.” In “Introduzione alle leggi naturali dell’ agricoltura” (pag 26) precisa: “il concime di stalla, composto di parti o avanzi di piante ed animali, può per conseguenza essere rimpiazzato dalle combinazioni inorganiche alle quali esso da origine trasformandosi nel suolo. Questi principi non solo non hanno alcun rapporto colle idee emesse anteriormente, ma ne sono diametralmente opposti.”

Secondo l’idea di Liebig i concimi chimici avrebbero dovuto portare una completa rivoluzione nell’agricoltura, sarebbe stato abbandonato il letame di stalla e sarebbero state sostituite con i concimi chimici tutte le sostanze minerali asportate dai raccolti. Si sarebbe potuta coltivare sempre la stessa pianta sullo stesso campo, fosse trifoglio o frumento od altro, senza discontinuità e senza che si esaurisse la fertilità del suolo, secondo i desideri ed i bisogni dell’agricoltore. Sarebbe finita la dipendenza servile dell’agricoltore dal bestiame per la fertilità del suolo e l’allevamento animale ai fini di produrre latte e carne avrebbe potuto svilupparsi come attività parallela a quella della coltivazione, senza più alcun legame tra questa e l’allevamento stesso…

Dalle sue origini, sino a pochi decenni fa, tutta  l’agricoltura era organica: mio bisnonno era più “biologico” di me, aveva una fattoria a ciclo chiuso. Quando dissi a mio padre, che era agricoltore di alto livello, che volevo fare biologico, mi disse semplicemente che i tempi erano cambiati, che non era più possibile perché il mercato chiedeva altro, perché il progresso della chimica e della tecnica , anche nelle campagne,  era diventata la norma che tutti seguivano ed era un flusso cui non ci si poteva opporre. O fai debiti e le banche ti portano via la terra, Mi disse che io ero un conservatore, pur riconoscendo tutte le mie ragioni agronomiche. A noi giovani ribelli contro il sistema sembrava che fare biologico fosse un atto rivoluzionario, in realtà non abbiamo inventato niente di nuovo. L’agricoltura biologica cosiddetta, moderna è un settore economico del mercato capitalista, di cui deve stare alle leggi e regole, ma i suoi fondamenti e la sua storia sono antichi di migliaia di anni: è come avere scoperto l’acqua calda e spacciarla per qualcosa di nuovo.

 

Civiltà urbana e cultura naturale e rurale

Si definisce preistoria il periodo antecedente il sorgere delle civiltà urbane caratterizzate da proprie organizzazioni gerarchiche di governo e lavoro, religioni istituzionali, con tecnologie e scienze, alfabeto e scrittura, architetture civili e religiose, mura e porte, economie complesse extra-agricole o extra-naturali, sistema monetario privato o di stato. La storia inizia con le civiltà.

Ancora oggi, abbiamo civiltà urbane, tecnologiche, opulente e abbiamo, dall’altra parte,  sempre meno, culture native e società ed economie naturali e rurali, definite arretrate e sottosviluppate, che possono anche essere estremamente povere come godere di salute  e prosperità, le quali secondo certi parametri, vivrebbero  ancora nei tempi preistorici.

Gli attori economici delle ultime “civiltà” naturali sono cacciatori, raccoglitori, pescatori, artigiani che vivono in un territorio delle sue risorse naturali perenni o rinnovabili, in zone spesso impervie, oggi, che permettano loro di vivere del loro modo, cultura e tradizione;  Quelli delle “civiltà” rurali  sono gli allevatori e coltivatori, anch’essi artigiani, dediti ad economie locali di sussistenza e piccolo mercato, i quali sono storicamente il gradino più evoluto dei primi, o per qualcuno, al contrario, ne sono una forma di decadenza.

La visione ideologica dominante del nostro passato ci racconta in termini dispregiativi e di commiserazione di un’esistenza umana pre civilizzata o primitiva  fatta di privazioni, brutalità e ignoranza, cannibalismo, della barbarie del cavernicolo, come  quella dei nativi contemporanei o dell’ignoranza, sporcizia, arretratezza, grettezza del contadino . Il passato, nell’idea di progresso illimitato dell’umanità  è sinonimo di qualcosa di limitato, di obsoleto e scaduto, da superare continuamente con qualcosa di sempre nuovo, migliore, moderno, in una continua tensione verso il futuro. La nuova semente ogm ….

Questa visione è oggi rivista da riflessioni più approfondite e l’antico mito dell’età dell’oro, considerato una superstizione senza fondamento, trova quindi  una certa ragione di essere. Si può concepire la storia all’incontrario di come viene a noi insegnata e soprattutto che possano esistere altri modi di vita diversi per gli esseri umani?

Il processo di civilizzazione, ha osservato Freud, è il passaggio forzato da una vita libera e naturale ad una vita di continua e progressiva repressione.

Nella preistoria, per decine e centinaia di migliaia di anni gli esseri umani vivevano in intimo contatto con la natura madre, di caccia, pesca,  raccolta e artigianato in società egalitarie e pacifiche. Qualcuno parla di abbondanza di tempo dedicato all’ozio e agli svaghi, di saggezza istintiva, di un piacevole modo di vita. Si parla di statura più elevata, maggior robustezza dell’apparato scheletrico, pressoché sconosciute carenze alimentari, carie dentali, malattie infettive.

Comunità di cacciatori e raccoglitori continuano ad esistere sul nostro pianeta ancora oggi e il loro studio conferma questa tesi.

Con l’ addomesticamento di animali e piante ossia con l’allevamento e coltivazione, pare che le società umane siano decadute da questa età dell’oro, anche se le maggiori condizioni di miseria, sottonutrizione, e quindi maggiori malattie ed infezioni tipiche nella storia di agricoltori, contadini, rurali in genere sono in realtà dovute anche ad altri fattori, come l’ignoranza o dimenticanza di tecniche e metodi agricoli, calamità naturali e stagioni poco propizie, tasse e vessazioni da parte di un potere cittadino di aristocratici, clero o borghesi, spoliazioni belliche. In realtà, credo si tratti invece di una evoluzione di forma di “civiltà”, perché gli agricoltori sono rimasti in genere anche cacciatori, pescatori,  raccoglitori, artigiani. Si parla di gente che viveva nelle ville, dei villici, e dei rustici si diceva, o anche degli agricoltori nel senso più nobile del termine, come in auge  nella cultura classica latina e quindi umanista e rinascimentale sino al 700 e oltre.

Parliamo oggi di Civiltà Contadina, come un mondo a se stante, che ci ha preceduto: viviamo infatti nella “Civiltà Urbana” capitalista, per cui le campagne come gli esseri umani sono divenuti meri valori e disvalori di mercato finanziario speculativo. La civiltà agricola o contadina, ha migliaia di anni della sua storia oggi pressoché dimenticata nel mainstream della cultura moderna.

Già duemila anni fa nell’impero romano, ci fu chi sentì il bisogno di scrivere di agricoltura come di una antica e nobile arte che andava perduta con il progresso dell’impero e della sua globalizzazione delle merci, dell’agricoltura industriale di rapina. Primi popoli contadini furono quelli che abitavano nelle valli fertili dei fiumi, ecosistemi naturali originali di grossi erbivori; anche gli antichi romani erano un popolo di agricoltori e allevatori che viveva nella valle del Tevere, ma ce ne erano altri, come Sanniti ed Etruschi.

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Per cercare di spiegarsi le cause della crisi attuale del mondo capitalista c’è anche una tendenza d’”avanguardia ecologista” che punta il dito contro l’agricoltura, la quale avrebbe aperto la via alle grandi civiltà e le avrebbe sostenute, quasi fosse tutt’una con esse. Agricoltura che viene giudicata come responsabile della privatizzazione delle terre, del sorgere di gerarchie sociali, di sottomissione delle donne, del patriarcato maschilista, della schiavitù di animali e uomini, della distruzione degli ecosistemi  e altro ancora. Dai  villaggi rurali sarebbero sorte le città. Non è proprio esattamente così.

Qualcuno osserva infatti che gli agricoltori non vivono nelle città, che la loro cultura e forma di civiltà è ben diversa da quella urbana, quindi non furono gli agricoltori ad averle fondate,le città, quanto altri e per altri motivi e necessità.

Catal Huyuk, 10.000 anni fa, sono le rovine di una piccola città fondata da artigiani dell’ossidiana, che scambiavano la loro merce moneta con beni diversi, era crocevia di mercanti, non c’erano tracce evidenti di palazzi di governo o templi, gli abitanti integravano la loro economia con caccia, pesca e raccolta e solo un quarto circa in percentuale era rappresentato da piccolo allevamento e coltivazione di sussistenza.

Il passaggio tra caccia e raccolta, artigianato e agricoltura non fu affatto una rapida rivoluzione che si diffuse per il mondo a macchia d’olio ma un lento e progressivo processo in tempi e luoghi diversi, semplicemente in funzione di soddisfare al meglio i bisogni umani fondamentali, per necessità di sopravvivenza e benessere. Per lungo tempo l’agricoltura rimase integrata alle economie naturali originarie, non ultimo in dipendenza delle risorse proprie di un territorio.

Certo è che allevare animali o auto prodursi alimenti in un luogo evitava lunghe peregrinazioni e garantiva maggiori scorte, anche per lungo tempo.

Invece di capanne mobili di pelli, questi nostri antenati usarono pietre e legname,  o mattoni di terra cruda o cotta per costruirsi dimore stabili. Le abbellirono con dipinti, fabbricavano vasellame, utensili, oggetti vari d’uso con perizia e senso artistico.

Dell’agricoltura fecero un’arte e una scienza, rendendo e mantenendo  fertili le terre e producendo abbondanza di alimenti e materie prime. Mantennero, verso Madre Terra e la natura in genere un profondo timore religioso, rispetto e venerazione: i primi culti di cui si abbia memoria tra gli autori più antichi, ma anche dalle testimonianze archeologiche, sono i culti agrari dedicati a madre terra, diversi e precedenti da quelli propri delle civiltà urbane, dalle quali vennero successivamente in parte assorbiti e integrati.

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Vediamo come i Latini descrissero la nascita dell’agricoltura: furono gli dei che diedero agli uomini la conoscenza dell’arte di allevare bestiame e coltivare la terra quando l’Età dell’Oro di Saturno*, volse alla fine. (* scrisse Virgilio: età dell’oro, in cui “nessun colono lavorava i campi, né era lecito delimitarli tracciando confini: tutto era in comune e la terra, senza che le fosse richiesto, produceva spontaneamente e con generosità ogni cosa” (Virg. Op.cit-I, 125), * ( vedi Columella .Libro I –pag.25 – Impoverimento degli ecosistemi da cause antropiche o naturali?) . Esiodo: vivevano come gli dei; non avevano affanni,/ senza dolori e miserie; non erano afflitti nemmeno/dalla vecchiaia…/fuori da tutti i malanni, contenti vivevano in festa./Quando arrivava la morte, era come cadere nel sonno./ Tutto era bello per loro. La terra era tanto feconda/ che produceva da sé, generosa e cortese”,

Ma all’impoverimento dei generosi ecosistemi naturali selvatici fu lo stesso padre Giove a far in modo che: “ l’uso della riflessione (umana ragione e intelligenza) desse gradatamente vita alle varie arti, e facesse cercare tra i solchi l’erba del grano, e facesse scoprire nelle vene della selce la fiamma nascosta (del fuoco)” e “ Volle, lo stesso padre degli dei, che la via alla coltivazione non fosse facile e per primo impose di dissodare ad arte i campi, sensibilizzando i cuori dei mortali a tali cure, né che il suo regno intorpidisse in un ozio insopportabile”.  Fu Cerere poi, ossia madre terra stessa, sempre secondo Virgilio, la quale “per prima insegnò ai mortali come rivoltare la terra col vomere, allorché già mancavano le ghiande e i frutti della selve sacre e Dodòna negava il cibo”.  Si svilupparono allora, parimenti all’agricoltura le diverse arti “ed il lavoro assiduo vinse  le necessità che urgono in difficili circostanze”. In pratica, di necessità virtù.

L’uscita dal giardino dell’Eden, ossia dalla fase primitiva dell’economia di caccia  e raccolta dei frutti spontanei della terra, nella mitologia romana non assume i toni tragici della cacciata biblica a causa della colpa di Eva e della maledizione divina di essere condannati a coltivare la terra, con il sudore della fronte e stridor di denti, come nella visione giudaico-cristiana. Fu piuttosto  volontà stessa del padre degli dei, succeduto al genitore Saturno ed alla sua Età dell’Oro, ai fini dell’evoluzione umana nelle arti e nella conoscenza, non ultimo della sopravvivenza. Non è una maledizione, essere agricoltori, quanto piuttosto una benedizione degli dei, con i quali l’uomo antico, l’antico agricoltore, continuava a dialogare in uno stretto legame definito re-ligio dai latini con il soprannaturale, madre terra, divinità, spiriti, geni, fauni e ninfe di Natura; come il cacciatore o il pescatore adoravano la foresta e le pianure selvagge o il mare, il fiume o il lago, gli animali che cacciavano, da cui dipendeva la loro sopravvivenza.

Con il proprio lavoro in Natura, l’allevamento  animale e la coltivazione dei campi, integrati con la caccia e la pesca, l’artigianato dalle risorse presenti, l’uomo antico da nomade e seminomade transumante diviene sedentario in villaggi di capanne, sviluppa la propria economia di autosufficienza ed esprime la propria “Cultura” profondamente derivata e connessa alla Natura stessa. Una Cultura millenaria diffusa su tutto il pianeta in eterogenee forme nei luoghi e nel tempo che non solo precede le Civiltà urbane ma ne continuerà a convivere parallelamente, sino ai giorni nostri. Fu anche da grandi villaggi rurali che le città si svilupparono in seguito evolvendo le propria forme di “Civiltà”, in pianure fertili di grandi fiumi ricchi di acqua e pesci. Va detto che con l’agricoltura, caccia pesca e raccolta non scomparirono mai totalmente, ma rimasero attività complementari e stagionali integrate all’economia della coltivazione e dell’allevamento.

La dignità e la qualità della Cultura dei Campi Coltivati,  il suo essere antico ed anteriore nonché diverso dalla Civiltà dell’Urbe sono connotate da Varrone:  “Sebbene ci siano stati tramandati due modi in cui l’uomo vive, l’uno rurale e l’altro urbano, non c’è dubbio che questi siano diversi non solo nei luoghi ma anche nel tempo in cui ciascuno ebbe origine. Di molto più antica è la vita rustica, il tempo in cui cioè gli uomini vivevano coltivando la campagna e non avevano città, abitavano in capanne e non conoscevano mura e porte”.E così continua: “… gli agricoltori precedono la gente di città di un enorme numero di anni (Roma fu fondata 700 anni prima). Nessuna meraviglia, in quanto fu la divina natura che ci diede la campagna, e l’arte umana che costruì le città … e non solo la coltura dei campi è più antica, ma anche migliore”(Varrone, libro III)

“Cultura” è un termine oggi usato indifferentemente ed in senso ampio rispetto alla sua originale etimologia, sinonimo di “civiltà” o suo prodotto, da cui era invece distinto definendo modi di vivere ed usi, conoscenze, arti ed espressioni proprie del mondo rurale. Civiltà muove da “civitas”, la città, il centro di potere gerarchico politico, militare e religioso, luogo cinto di mura difensive ed ornato di splendide architetture, con strade e piazze, arene e templi. La vita cittadina è diversa da quella di campagna, diverse le esigenze ed il modo di soddisfarle, una dimensione aliena fin dalle sue origini alla vita in campagna. La civiltà urbana esprime proprie arti e scienze, musica, danza e letteratura, nonché proprie religioni con propri dei più verosimilmente adatti al contesto urbano. Varrone, nella sua introduzione alla propria opera, non invoca gli dei della città, le cui immagini dorate sono nel foro, mai i dodici dei, sei maschi e sei femmine, che sono i massimi patroni degli agricoltori:  neque tamen eos urbanos, quorum imagines ad forum auratae stant, sex mares et feminae totidem, sed illos XII deos, qui maxime agricolarum duces sunt. (Varrone I, 1)  Questi dei rustici sono Giove e Tellus, padre Cielo e madre Terra, il Sole e la Luna; Cerere e Bacco, dei degli alimenti solidi e liquidi; Minerva dea degli ulivi delle greggi, della tessitura e Venere degli orti e giardini; Ruggine e Flora, l’uno le malattie fungine dei raccolti, l’altra dea della vegetazione; Linfa e Buon Evento, la prima l’acqua che vivifica la terra (soluzione circolante), il secondo, qui maschile, la dea Fortuna o Abbondanza, quella che regge nell’iconografia antica la mitica Cornucopia, il corno dell’abbondanza, corno bovino da cui scaturisce ogni frutto della terra.

È un rispetto profondo, istintivo e spirituale, quello che lega l’uomo vero agricoltore alla Terra e alle energie vitali, alla forze soprannaturali;  è alle radici del termine stesso Agricoltura, il quale è derivato direttamente a noi dal latino “Agri Cultura”. Come uno scrigno, questa parola racchiude un proprio originario ambivalente e molteplice significato. “Cultura” deriva dal verbo “colere” il cui participio è “cultum”,  la coltivazione della terra  era una con il culto per essa“Non senza ragione (gli antichi romani)  chiamavano la terra sia “madre” che “Cerere” e coloro che la coltivavano ed onoravano erano ritenuti uomini che conducevano una vita pia ed utile, ultimi sopravvissuti della stirpe del re Saturno (Età dell’Oro). Ed è per questo che i riti sacri in onore di Cerere, prima di tutti gli altri furono detti iniziatici” Così scriveva Marco Terenzio Varrone nel I secolo avanti Cristo, nel suo “De Re Rustica”. Cerere latina è la dea greca Demetra, “tà meter”, ossia la madre, Madre Terra.

“Colto” significa sia coltivato, ornato, abbellito, di un campo, che educato, erudito e saggio riferito ad un uomo. “Cultura” è pertanto la conoscenza, sapienza e anche saggezza appresa dal libro aperto della Natura stessa vivendone a contatto diretto, dalla osservazione delle sue strutture, fenomeni, dinamiche e cicli, con un atteggiamento di umiltà, rispetto, riconoscenza  e devozione.

_____________________________________________________________________________________________Humus, humanus, humiltas condividono la medesima radice.

Colo: 1)coltivare-aver cura di-proteggere -incivilire- adornare 2) abitare-soggiornare-3) venerare – onorare –trattare con riguardo-tenere in considerazione-celebrare –osservare riferito a culti e riti

Cultor : coltivatore –colono –agricoltore – cultore (amante)- cultore degli dei –veneratore –adoratore.

Cultura : coltivazione –agricoltura –coltivare la terra – educazione – filosofia – ossequio –rispettosa cura –culto religioso – venerazione

Cultus (participio di colo): coltivato – lavorato  – adorno- elegante – raffinato – colto- educato – fine

Cultus: coltivazione, cultura, cura, educazione,-culto,adorazione, venerazione, ossequio- tenore di vita, costume, civiltà, cultura, raffinatezza, eleganza, piaceri raffinati, lusso, ornamento.

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Lucio Giunio Columella, altro autore del secolo successivo a Varrone, definisce il rapporto dell’uomo con la Natura madre con queste semplici parole: “… la Natura, dotata di perenne fertilità  dal creatore dell’universo, … cui fu data una divina e perpetua giovinezza, … è chiamata  madre comune di tutte le cose – la quale ha sempre generato tutte le cose ed è destinata a generarle continuamente …”

Così Virgilio celebra nelle sue Georgiche la vita dei campi e il legame (re-ligio) con le forze della Natura allora divinizzate: “Cosa rende ridente la campagna, questo canterò, Mecenate, la stagione in cui si dissoda la terra, si legano agli olmi le viti; come si governa il bestiame,  si allevano le greggi  e l’esperienza che esigono le piccole api. Voi, luci splendide dell’universo che guidate nel cielo il corso dell’anno;  e Libero e Cerere nutrice, se in grazia vostra sulla terra  si mutò in spiga fertile la ghianda caonia e all’acqua d’Achelòo si mescolò il vino; e voi, Fauni, venite, dei che aiutate chi vive nei campi, venite insieme, Fauni e Driadi fanciulle: io i vostri doni canto.”

Annota Von Liebig, citando Schlosser, storico tedesco e parlando dell’antica agricoltura italica preromana:

La religione del paese era intimamente legata coll’agricoltura e coll’allevamento del bestiame, e le feste nazionali erano feste agricole. Dei sacerdoti speciali ( Fratres Arvales) formavano una confraternita agricola e non se ne occupavano solamente sotto il punto di vista del culto, ma ancora sotto il punto di vista scientifico. Tutte le cerimonie religiose e tutte le feste nazionali aveano per iscopo di mantenere l’agricoltura del paese sotto la sorveglianza dell’autorità, e di stimolare, col mezzo dei doveri religiosi, lo zelo del coltivatore. Presso i Sanniti le foreste, a causa dell’influenza ch’esse esercitano sul clima, erano poste sotto la sorveglianza dell’autorità pubblica “

I  “Fratres Arvales” *, anche secondo una remotissima tradizione romana erano un antico collegio sacerdotale formato da dodici eletti a vita. Rappresentavano i dodici figli di Acca Larentia, e i mitografi riconoscevano in loro una raffigurazione dei dodici mesi dell’anno (Plin., NatHist., XVIII, 6; Gell., VII, 7,8). Si dedicavano al culto della terra che nutre, invocandola sotto il nome di dea Dia, e il loro anno liturgico, che era anche l’anno di carica dei dignitarî del collegio, andava da una festa solstiziale dei raccolti all’altra (ex Saturnalibus primis ad Saturnalia secunda – 17 dicembre).

(inno dei Frates Arvales , 218 A.C.in latino arcaico, non completamente traducibile)

(* Letimologia del termine deriva da arvum o aruum, “terra lavorata” (la radice ar è la medesima dei termini “arare” ed “aratro”).

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Le origini degli Arvali si ricollegano con quella forma della primitiva religione che si riferisce alla coltura dei campi (arva), favorendola con cerimonie sacrificali  che  dedicavano alla  dea Dia, divinità arcaica romana, più tardi identificata con Cerere, e di Marmar o Mavors, identificato più tardi con Marte, i quali proteggevano la terra e le messi.

L’insegna propria dei membri del sodalizio era la corona di spighe con bianche bende. Nella seconda metà del mese di maggio, poco prima dello spuntare delle messi, compivano un’antichissima cerimonia di purificazione dei campi che durava tre giorni. Questa cerimonia pubblica, detta Ambarvalia, consisteva nel percorrere a passo di danza il perimetro degli arva, le terre coltivate della città, al fine di renderli immuni sia da nemici esterni sia da potenze malevole che provocano malattie.

Si autodefinivano “figli della madre terra“, e nel loro ufficio, oltre che alla dea Cerere, essi compivano sacrifici anche per il dio Bacco, per ingraziarselo nella speranza di una buona produzione delle viti. I sacrifici si compivano principalmente con l’offerta dei prodotti della terra e animali che venivano immolati o sparsi al vento nei campi o imbevendo la terra dei loro succhi.

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Quando Roma assurse a grande potenza, i Fratres Arvales e le loro cerimonie si svolgevano all’interno della città e in un bosco sacro adiacente, arrivando a perdere pertanto il loro spirito originario di culti agrari propri di una civiltà rurale per diventare pomposi  e spettacolari quanto vuoti rituali urbani con cui si confusero sino allo loro soppressione da parte dei cristiani nel IV secolo.

Agli inizi della loro storia i Latini erano un popolo di cacciatori, pescatori, raccoglitori, allevatori, coltivatori e abili artigiani. Erano una delle diverse etnie che popolavano l’Italia. Italia che era, a detta degli antichi, un grande giardino coltivato (vedi sopra Liebig).

“Prima ancora che il popolo romano facesse la sua apparizione nella storia, molto tempo avanti la fondazione di Roma, l’Italia era di già il paese meglio coltivato dell’Europa. Ce ne fanno fede gli avanzi delle colossali costruzioni che si ammirano ancora oggidì nell’antico paese dei Latini, e tutti i documenti ci assicurano che l’antico Lazio si trovava in uno stato estremamente florido. Puossi pretendere con certezza ( dice Schlosser nella sua Storia Universale, t. III, p.140) che questo paese non fu in nessuna epoca più popolato e non offrì giammai un aspetto più elevato di prosperità che in questi secoli anteriori al dominio della Storia. Nemmeno posteriormente quando il potente popolo romano ebbe accumulato nel Lazio i tesori delle contrade più ricche, il suo stato non era minimamente paragonabile a quello dei tempi primitivi. Il Lazio all’epoca della grandezza romana, non offriva che la ricchezza di un numero ristretto di famiglie, mentre che anteriormente l’intiero paese e ciascuno dei suoi abitanti gioivano d’un grande benessere.

Il territorio delle paludi Pontine che oggi nutre appena un qualche raro capo di bestiame e spande da lungi i suoi miasmi, era allora occupato da ventitré villaggi popolosi. L’attività dei Latini avea saputo convertire queste maremme, come gli Etruschi, pei primi, seppero rendere abitabili le paludi della Lombardia, col mezzo di canali e di dighe. La quantità dei villaggi più o meno importanti, ricordati negli scritti degli storici romani, attesta che una popolazione numerosissima viveva sopra una superficie poco estesa, e che per nutrirla, il suolo doveva essere estremamente fertile e coltivato come un giardino (Schlosser).

L’agricoltura doveva essere giunta ad un ugual grado di prosperità sul territorio dei popoli Sanniti, che abitavano allora tutta la catena elevata degli Apennini dal paese degli Etruschi fino all’estremità sud dell’Italia. Tutto il territorio del Monte Matese, che durante una parte dell’anno è ricoperto di neve, e che rimase incolto dopo i tempi dei Sanniti, era stato in quest’epoca trasformato col lavoro assiduo di un popolo felice e operoso in terre arative e in praterie ed era straordinariamente popolato. In tutto il Sannio, paese essenzialmente montuoso, bel poche terre rimanevano incolte.”

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Sappiamo che agli inizi, per volontà del mitico Romolo dice la leggenda, a ciascun nato di stirpe latina veniva assegnata di diritto una porzione di terra, due iugeri, circa 5000 metri quadrati. Questa assegnazione a vita poteva essere lasciata in eredità, da cui il nome Heredia. Cento Heredia formavano una Centuria, ogni Heredia era diviso a metà in due iugeri. Questa era  ed è ancora una superficie minima sufficiente ad un individuo per sopravvivere.

“Arava Cincinnato la sua piccola villa, la quale non trapassava il termine di quattro iugeri … Notasi l’onore che si faceva in Roma alla povertà, e come ad un uomo buono e valente, quale era Cincinnato quattro iugeri di terra bastavano a nutrirlo ..”( Macchiavelli. I Discorsi)

Riprendiamo a riguardo la frase di Varrone: “coloro che la coltivavano ed onoravano, la terra, erano ritenuti uomini che conducevano una vita pia ed utile”.  Ci riporta Catone: “ quando i nostri antenati volevano lodare un galantuomo, lo chiamavano buon agricoltore e buon colono, e con siffatti nomi credevano essi di onorare ampiamente colui che lodar volevano”.

La morale “classica” dei latini derivava loro dalle tradizioni agricole degli antenati, dai  valori religiosi di umiltà, austerità di costumi, “pietàs“, onestà, senso civico, rispetto delle leggi della comunità, dignità e senso dell’onore dei “maiores”. La vita agricola era considerata sana sia dal punto di vista fisico che etico. Fare agricoltura era un’attività per uomini liberi e molti autori latini declamano la superiorità della vita rustica rispetto a quella del mercante o peggio di tutte, dell’usuraio. L’opulenza e i fasti di Roma imperiale offuscarono questi concetti e valori che nella pratica decaddero in vizi e corruzione, così come l’antica arte e scienza dell’agricoltura venne dimenticata. (Columella. Introduzione, pag. 13)

[*HEREDIA CENTUM CENTURIA DICTA.

(Nella) colonia di Terracina (329 a. C.), sappiamo che ogni centuria fu divisa tra 100 coloni. E questa cifra è attribuita dagli eruditi romani alla leggendaria assegnazione di Romolo ai primi cittadini romani; la superficie di ogni singola proprietà constava di due iugeri, ed era detta heredium. Benché l’esiguità dell’assegnazione ponga problemi che sono stati anche recentemente oggetto di discussione, la cifra dei 100 heredia offre l’unica spiegazione probabile del nome di centuria (Festus, De sign. verb., 47 L: Centuriatus ager in ducena iugera definitus, quia Romulus centenis civibus ducena iugera tribuit).]

“In origine il giardino romano aveva una funzione produttiva, era cioè, una porzione di terra di pertinenza della casa, nella quale si coltivavano piante alimentari ad uso dei proprietari. La proprietà di questa porzione di terreno veniva trasmessa tramite eredità insieme alla casa stessa, era cioè un bene inalienabile della casa. Da qui l’antico nome di heredium modificatosi, col tempo, in hortus. Il giardino primitivo aveva anche un significato religioso in quanto spessissimo legato ai Lari, a Flora, a Pomona, talvolta a Priapo il cui simbolo fallico serviva per evitare i malefici al raccolto, e, a detta di Plauto, anche a Venere definita dea protettrice del giardino. Con l’industrializzazione colturale della campagna romana, che si avviò dalla seconda guerra punica, il terreno in prossimità della casa finì col restare una zona a colture promiscue che serviva da seconda dispensa per la famiglia, forniva generi alimentari ai coloni ma nello stesso tempo riforniva, di ortaggi e frutta, la città. Con l’espansione urbana e demografica di Roma, le capacità di autoapprovvigionamento dei residenti si ridussero fortemente in quanto staccati dalla produzione agricola. Da ciò derivò una crescente domanda di ortaggi e frutta che determinò una notevole espansione dell’orticoltura. L’hortus,infatti, da pertinenza della casa diventò un vero e proprio campo, di notevole estensione. E questo pose in crisi il concetto di giardino produttivo, ormai privato di una precisa posizione all’interno dell’azienda agraria. Con l’ellenizzazione della cultura romana, il giardino, cioè la porzione di terreno intorno la casa, riprese una identità propria ed unica attraverso un graduale passaggio dalla funzione produttiva alla funzione ornamentale. (Eraldo Antonini)

La terra agricola era il bene più prezioso di una antica comunità stato di agricoltori. Anche il suo bestiame, al punto che chi uccidesse senza motivo un bue, dicono Varrone e Columella, parlando di tempi già a loro antichi,  era passibile di pena di morte da parte dell’autorità. Le civiltà agricole della storia, quelle della mezzaluna fertile, avevano assai verosimilmente le stesse leggi: il bovino era sacro e inviolabile, nell’antico Egitto come ancora oggi è retaggio nell’ India vedica, il bovino ospita lo spirito della divinità, è al centro di un culto a lui dedicato.

Il bue Api egizio era un toro, tra i migliori selezionati nella valle del Nilo ed era allevato in un santuario, a  vita e con tutti gli onori dovuti ad una divinità.

Il tempio stalla e la stalla tempio.

Nell’antico Egitto, è esistita, per circa 29 dinastie, la tradizione millenaria del culto del toro Apis. Secondo i principi della loro religione, l’anima del dio Osiride dimorava nella figura bovina. Hathor, è la dea egizia primigenia, è madre terra-vacca, la cui religione precede quella di Osiride, il padre celeste, del quale diventa sorella-compagna Iside con il figlio, in cui Hator si trasforma. Hator ha grandi corna bovine che contengono il disco solare o lunare.

Le similitudini con la cultura vedica sono evidenti: le dea madre indiana nasce dal latte cosmico, dalla via lattea. Si incarna nel bovino femmina, come il dio padre egizio nel toro. Hathor è la mucca sacra le cui gambe rappresentano i quattro assi del mondo, i punti cardinali celesti e terrestri.

Quando il primo bue Apis morì*, il supremo spirito divino trasmigrò in un altro bue destinato  a succedergli gli egizi restarono in lutto per 70 giorni, tornando a gioire solo quando fu individuato il suo successore, rilevato da precisi colori del manto” ; in seguito il successore che veniva scelto fin da piccolo tra i migliori di quelli che erano allevati e pascolavano nelle praterie del Nilo. Qui veniva quindi ben pasciuto per 40 giorni e portato in seguito con tutti gli onori, tra ali festanti di popolo rurale, nel tempio di Osiride a Menfi, dove aveva un proprio recinto sacro.

Mantenuto a vita, aveva  il proprio harem di fattrici scelte, la cui genealogia era trattata con altrettanti onori. Alla sua morte veniva mummificato e posto nelle cripte del tempio, riposto in grandi camere sarcofago, per l’adorazione popolare. Le donne erano ammesse nel recinto del toro sacro per compiere (osceni) rituali di propiziazione della fertilità. Al toro Api erano attribuite facoltà taumaturgiche, al tempio si recavano anche ammalati e storpi, che speravano di ottenere guarigioni miracolose.

 “Alla sua morte l’Apis ebbe una sepoltura individuale fino alla XIX dinastia. Fu Ramses II a far costruire nei pressi di Menfi un mausoleo comune, scoperto da Mariette nel 1850-1851. Si trattava di un tempio dedicato a Serapide (da Osiride-Apis), formato da un complesso di sotterranei simili al labirinto cretese, che conteneva «decine e decine di Apis mummificati e collocati in blocchi di granito e di basalto di circa 70 tonnellate ciascuno»”

Il culto di Serapide, per l’uomo moderno è solo una lontana nota storica di folclore religioso di civiltà passate. Eppure fu un  culto agrario fondamentale per millenni, seguito da generazioni di agricoltori, coltivatori e artigiani di grandi civiltà agricole, come quella egizia, in cui l’unità di moneta fu il grano. Civiltà che ebbero grandi città stato e complessi templari, come perle splendenti tra campi perfettamente coltivati e produttivi, fattorie e villaggi rurali. La storia dell’agricoltura ebbe inizio lungo le fertili valli dei grandi fiumi dal Nilo all’Indo.

L’agricoltura era una scienza di cui si occupava una casta sacerdotale di eruditi (astronomi, matematici, geometri)  che aveva il compito anche di insegnare  i principi della pratica di allevamento e coltivazione, di educare alla scienza ed all’arte agricola, fondamento primo della sopravvivenza e benessere di comunità e stato . Nell’antica Italia agricola i sacerdoti erano gli Arvali.

È il bovino che regge l’intero impianto dell’agricoltura. È il suo letame il principio di fertilità naturale e perenne del terreno. “Laetamen” ciò che rende la terra fertile, feconda, in latino: lieta. Lietezza è il sentimento dell’agricoltore di fronte a campi ben coltivati e produttivi di raccolti, lietezza è sinonimo di benessere perché i raccolti sono abbondanti, e la miseria è sconfitta, e si può celebrare, con danze, musica, si possono ornare le dimore con pitture, decorare i vasellami, ricamare i tessuti, lietezza è mesta gioia di vivere ed essere vivi.

Il culto ha una ragione d’essere che è scientifica: il bovino è attore primario nella catena alimentare delle valli fluviali e dei loro pascoli e foreste. È nel pascolo che si forma l’humus fertile sul quale crescono cereali, legumi, ortaggi, erbe e frutta.

Questo principio scientifico fondamentale fu fissato come una sorta di dogma religioso; in questo caso è evidente come la religione sia un mezzo non solo di controllo ma anche di educazione delle masse popolari contadine, non ultimo attraverso culti e rituali simbolici che servono a mantenere e tramandare una tradizione di conoscenze fondamentali per il genere umano, la sopravvivenza e il benessere comune. Non esistevano ancora schiavi nei tempi di queste civiltà.

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