L’Arte e la Scienza di coltivare la Terra

“Leggendo le Opere degli antichi un agronomo si compiacerà assaissimo di vedere quali fossero le pratiche agrarie osservate nei tempi i più remoti, e di trovare che le più essenziali all’Arte erano pure le stesse di quelle di oggi; ed ancora le migliori. (Filippo Re (1763-1817) – Discorso d’Agricoltura .pag 95)”

 

Così scrisse Filippo Re, agronomo e scienziato del Ducato Estense, considerato uno dei massimi studiosi di agricoltura del suo tempo.

Ancora oggi, a chi sia veramente appassionato di agricoltura organica, può risultare non solo interessante quanto utile  il riscoprirne le origini nei testi degli agronomi antichi, di cui i primi a noi pervenuti sono di oltre 2000 anni fa. Queste prime opere in particolare furono riprese tra il ‘300 e l’800, dopo un lungo oblio, dagli agronomi successivi i quali non solo ne accolsero l’eredità ma ne fecero il fondamento di una rinascita del sapere agricolo,  pur visto dalla parte del grande ma anche piccolo possidente che si avvale di fattori, manodopera mezzadrile e bracciantato.

Il signore prende ad occuparsi direttamente di agricoltura, quale arte nobile che si addice all’uomo libero, all’aristocratico come al plebeo e si assisterà, dopo il ‘500, all’organizzazione fondiaria di tenute e poderi secondo il modello di villa rustica romana. Nelle campagne, terminata l’epoca dei castelli e borghi fortificati, si costruiranno eleganti dimore signorili con parco e giardino, ma anche abitazioni per i contadini, stalle, fienili, granai, cantine, ghiacciaie, cascine, opifici; i terreni verranno divisi in piccoli appezzamenti all’incirca corrispondenti allo iugero latino (biolche, tornature, acri) arabili ciascuno in un giorno con un paio di buoi, verranno reintrodotte le rotazioni e i sovesci. Coltivi affiancati da piantate di olmi e viti, di frutta o olivi, circondati da siepi vive, con prati stabili da pascolo e foraggio, essenze forestali per legname da lavoro o da ardere, fattorie con ogni genere possibile di bestiame, piccioni, pollame e selvaggina, peschiere. Fondi agricoli autosufficienti sia dal punto di vista energetico rinnovabile che della sopravvivenza, a ciclo chiuso, veri e propri organismi dotati di vita propria, in cui la proporzione tra coltivi, animali ed umani cercava il suo equilibrio ottimale di sistema concepito per durare nel tempo e rinnovarsi perennemente. Essendo il fine la produzione di alimenti e materie prime per il consumo diretto di contadini e padroni ed essendo ai tempi oltre l’ottanta per cento della popolazione dedita a questa economia rurale di auto sostentamento, solo una parte delle produzioni era destinata ai mercati urbani locali e da esportazione, per ricavarne comunque entrate in denaro: nel lavoro agricolo si produce sempre di più del necessario ai bisogni delle famiglie contadine e padronali e questo surplus creava la ricchezza e il benessere. L’artigianato rurale, domestico o di piccoli laboratori creava prodotti unici per fattura e qualità di uso e consumo. È chiaro come l’idea di profitto speculativo, di sfruttamento delle campagne con monocolture per il solo profitto speculativo rappresentasse una pratica che alterava l’equilibrio di questo modello economico di cui non era il fine principale. Al contrario si sapeva, dalle testimonianze di Varrone e Columella in particolare, come i metodi di sfruttamento intensivo delle terre creassero immediate ricchezze ai proprietari delle medesime, ma anche progressivo ed inesorabile impoverimento della fertilità dei suoli; si sapeva come il produrre grandi quantità industriali  cedute a basso prezzo fosse dannoso per le economie agricole locali, creando povertà sia tra i contadini asserviti che piccoli e medi proprietari e non potesse non risultare pertanto che nell’abbandono all’incolto e nell’esodo verso l’inurbamento, come era accaduto nell’età di Roma imperiale.

Dopo il ‘7oo, in particolare nella prima metà del secolo successivo, il “noveau regime” liberal borghese, ostile all’ordine agrario “ancien regime”, declasserà la concezione degli  agronomi precedenti sostenendo una nuova agricoltura estensiva ed industriale  volta allo sfruttamento delle terre e del bestiame ed aprirà la via al profitto capitalista in senso moderno, un’idea fino ad allora legata al commercio ed all’usura, in luogo della tradizionale rendita fondiaria.

Justus Von Liebig, considerato il padre dell’agricoltura chimica moderna di cui fornì le basi scientifiche con la sua Teoria Minerale della nutrizione dei vegetali, nella sua opera “Le Leggi Naturali dell’Agricoltura” afferma che il passaggio storico tra la nuova scienza agricola del progresso e quella antica, organica, risale alla data delle sue scoperte, il 1840. In questo saggio, Liebig  parla della vittoria dell’uomo sulla natura, della liberazione degli agricoltori dalla servitù al bestiame e al letame, concime superato da quelli minerali e chimici, che avrebbero permesso produzioni illimitate di alimenti sugli stessi terreni, aprendo quindi la via allo sfruttamento industriale delle campagne e all’economia del libero mercato capitalista per le merci agricole.

Allo stesso tempo, Liebig considera sorpassati ed obsoleti i principi dell’agricoltura organica tradizionale, le cui scuole, come quella tedesca di Moeglin, dell’agronomo Albrecht Thaer o quella Inglese di Lawson e le altre europee,  a sua opinione si basavano su superstizioni come l’attribuire importanza ad un terriccio nerastro detto humus, al bestiame e al letame, alle rotazioni, al credere che una forza vitale agisse su piante ed animali, grazie all’applicazione dei metodi antichi da parte degli agricoltori. Questi ultimi, definiti “pratici”, sempre secondo Liebig, opponevano la presunzione delle loro errate conoscenze derivate dalla loro esperienza diretta e tradizione ai nuovi principi scientifici e,  da  ignoranti quali erano, non accettavano consigli da chi, come gli scienziati moderni, che mai avevano coltivato la terra, voleva insegnar loro dall’alto delle cattedre accademiche. Nell’opera si riporta questa polemica tra agricoltori e scienziati, che non poco amareggiò Liebig, il quale credeva di agire per il bene dell’umanità. Ma già in un altro successivo capitolo, il medesimo si interroga in coscienza sulla sua responsabilità, pur in buona fede, di aver osato aggiungere un anello che credeva mancante alla catena della creazione divina, in sé già perfetta, avanzando pertanto dubbi sulla sua scoperta ed applicazione in natura.

La penetrazione dell’agrochimica nelle campagne non fu però immediata, ancora oltre un secolo dopo la maggioranza delle campagne continuava nei suoi metodi tradizionali organici, arando ancora con i buoi, in piccoli poderi a prevalenza di lavoro manuale.  Se  la meccanizzazione, pur artigianale era già diffusa e in progresso, fu la motorizzazione con trattori e altri mezzi che dal dopoguerra veicolò l’affermarsi dei concimi, diserbanti, antiparassitari chimici in misura sempre più massiccia  dagli anni ’60 .

Conoscenze, metodi e strumenti, modi di vita e cultura rurale pare siano, nel corso della Storia millenaria, come sospesi in un  tempo senza età ed in luoghi senza nome, nonostante un lento progresso abbia indotto  cambiamenti e migliorie anche notevoli tra la gente delle campagne, fino a quando, recentemente, la antica arte e scienza dell’Agricoltura organica si è rapidamente modificata, “modernizzandosi” e determinando, parallelamente,  l’inesorabile tramonto della propria cosiddetta “Civiltà Contadina”.

In controtendenza ed in alternativa abbiamo oggi opposto la “nuova” agricoltura organica e “sostenibile”, biodinamica e biologica, le quali, nuovi settori produttivi del medesimo mercato e sistema economico, stentano però, salvo eccezioni, a produrre anche l’orgoglio, oltre che della qualità degli alimenti, di una propria definita cultura. Il modo vita nelle campagne, da parte dei pochi agricoltori che sopravvivono (circa un 3% scarso della popolazione compresi i biologici)  è infatti perlopiù omologato a quello urbano, di cui ha assunto passivamente, in gran parte, la cultura. La “nuova”agricoltura organica,  ben lungi comunque dall’essere un’eccentrica novità non è però altro che la vera Agricoltura a noi derivata da una antica tradizione basata sulla conoscenza della Natura, le cui leggi perenni non mutano  e sul rispetto di Madre Terra : i nostri antenati contadini senz’altro erano più “biologici” di quanto non lo siamo noi adesso.

La cultura dei campi coltivati

Un rispetto profondo, istintivo e spirituale, quello che lega l’uomo vero agricoltore alla Terra,  è alle radici del termine stesso Agricoltura, il quale è derivato direttamente a noi dal latino “Agri Cultura”. Come uno scrigno, questa parola racchiude il proprio originario ambivalente significato. “Cultura” deriva dal verbo “colere” il cui participio è “cultus”,  la coltivazione della terra  era una con il culto per essa : “Non senza ragione (gli antichi romani)  chiamavano la terra sia “madre” che “Cerere” e coloro che la coltivavano ed onoravano erano ritenuti uomini che conducevano una vita pia ed utile, ultimi sopravvissuti della stirpe del re Saturno (Età dell’Oro). Ed è per questo che i riti sacri in onore di Cerere, prima di tutti gli altri furono detti iniziatici” Così scriveva Marco Terenzio Varrone nel I secolo avanti Cristo, nel suo “De Re Rustica”. Cerere latina è la dea greca Demetra, “tà metre”, ossia la madre, Madre Terra. È a questa divinità che nell’antica Grecia vennero dedicati i primi culti religiosi formali di cui si abbia memoria, noti come Misteri Eleusini, nel santuario di Eleusi, ad essa intitolato.

“Colto” significa sia coltivato, di un campo, che educato, erudito e saggio riferito ad un uomo. “Cultura” è pertanto la conoscenza, sapienza e saggezza appresa dal libro aperto della Natura stessa vivendone a contatto diretto, dalla osservazione delle sue strutture, fenomeni, dinamiche e cicli, con un atteggiamento di umiltà, rispetto, riconoscenza  e devozione.

Lucio Giunio Columella, altro autore del secolo successivo a Varrone, definisce il rapporto dell’uomo con la Natura madre con queste semplici parole: “… la Natura, dotata di perenne fertilità  dal creatore dell’universo, … cui fu data una divina e perpetua giovinezza, … è chiamata  madre comune di tutte le cose – la quale ha sempre generato tutte le cose ed è destinata a generarle continuamente …”

Così Virgilio celebra nelle sue Georgiche la vita dei campi e il legame (re-ligio) con le forze della Natura allora divinizzate: “Cosa rende ridente la campagna, questo canterò, Mecenate, la stagione in cui si dissoda la terra, si legano agli olmi le viti; come si governa il bestiame,  si allevano le greggi  e l’esperienza che esigono le piccole api. Voi, luci splendide dell’universo che guidate nel cielo il corso dell’anno;  e Libero e Cerere nutrice, se in grazia vostra sulla terra  si mutò in spiga fertile la ghianda caonia e all’acqua d’Achelòo si mescolò il vino; e voi, Fauni, venite, dei che aiutate chi vive nei campi, venite insieme, Fauni e Driadi fanciulle: io i vostri doni canto.”

Dei agresti, fauni e ninfe, nell’immaginario religioso degli antichi pastori agricoltori italici, sovrastavano alla Natura e alla vita stessa degli umani cui diedero la conoscenza dell’arte di allevare bestiame e coltivare la terra quando l’Età dell’Oro di Saturno, in cui “nessun colono lavorava i campi, né era lecito delimitarli tracciando confini: tutto era in comune e la terra, senza che le fosse richiesto, produceva spontaneamente e con generosità ogni cosa” (Virg. Op.cit-I, 125), volse alla fine.

Fu quindi lo stesso padre Giove a far in modo che: “ l’uso della riflessione (umana) desse gradatamente vita alle varie arti, e facesse cercare tra i solchi l’erba del grano, e facesse scoprire nelle vene della selce la fiamma nascosta (del fuoco)” e “ Volle, lo stesso padre degli dei, che la via alla coltivazione non fosse facile e per primo impose di dissodare ad arte i campi, sensibilizzando i cuori dei mortali a tali cure, né che il suo regno intorpidisse in un ozio insopportabile”.  Fu Cerere poi, ossia madre terra stessa, sempre secondo Virgilio, la quale “per prima insegnò ai mortali come rivoltare la terra col vomere, allorché già mancavano le ghiande e i frutti della selve sacre e Dodòna negava il cibo”.  Si svilupparono allora, parimenti all’agricoltura le diverse arti “ed il lavoro assiduo vinse  le necessità che urgono in difficili circostanze”.  

L’uscita dal giardino dell’Eden, ossia dalla fase primitiva dell’economia venatoria e di raccolta dei frutti spontanei della terra, nella mitologia romana non assume i toni tragici della cacciata biblica a causa della colpa di Eva e della maledizione divina di essere condannati a coltivare la terra, con il sudore della fronte. Fu piuttosto  volontà stessa del padre degli dei, succeduto al genitore Saturno ed alla sua Età dell’Oro, ai fini dell’evoluzione delle arti e della conoscenza umana, non ultimo della sopravvivenza.

Con il proprio lavoro in Natura, l’allevamento  animale e la coltivazione dei campi, integrati con la caccia e la pesca, l’artigianato dalle risorse presenti, l’uomo antico da nomade diviene sedentario in villaggi di capanne, sviluppa la propria economia di autosufficienza ed esprime la propria “Cultura” profondamente derivata e connessa alla Natura stessa. Una Cultura millenaria diffusa su tutto il pianeta in eterogenee forme nei luoghi e nel tempo che non solo precede la Civiltà urbana ma ne continuerà a convivere parallelamente, sino ai giorni nostri. Fu dai grandi villaggi rurali che le città si svilupparono in seguito evolvendo le propria forme di “Civiltà”. 

La dignità e la qualità della Cultura dei Campi Coltivati,  il suo essere antico ed anteriore nonché diverso dalla Civiltà dell’Urbe sono connotate da Varrone medesimo:  “Sebbene ci siano stati tramandati due modi in cui l’uomo vive, l’uno rurale e l’altro urbano, non c’è dubbio che questi siano diversi non solo nei luoghi ma anche nel tempo in cui ciascuno ebbe origine. Di molto più antica è la vita rustica, il tempo in cui cioè gli uomini vivevano coltivando la campagna e non avevano città, abitavano in capanne e non conoscevano mura e porte”.E così continua: “… gli agricoltori precedono la gente di città di un enorme numero di anni (Roma fu fondata 700 anni prima). Nessuna meraviglia, in quanto fu la divina natura che ci diede la campagna, e l’arte umana che costruì le città … e non solo la coltura dei campi è più antica, ma anche migliore”(Varrone, libro III)

“Cultura” è un termine oggi usato indifferentemente ed in senso ampio rispetto alla sua originale etimologia, quasi sinonimo di “civiltà” da cui era invece distinto definendo modi di vivere ed usi, conoscenze, arti ed espressioni proprie del mondo rurale. Civiltà muove da “civitas”, la città, il centro di potere gerarchico politico, militare e religioso, luogo cinto di mura difensive ed ornato di splendide architetture, con strade e piazze, arene e templi. La vita cittadina è diversa da quella di campagna, diverse le esigenze ed il modo di soddisfarle, una dimensione aliena fin dalle sue origini alla vita in campagna. La civiltà urbana esprime proprie arti e scienze, musica, danza e letteratura, nonché proprie religioni con propri dei più verosimilmente adatti al contesto urbano. Varrone, nella sua introduzione alla propria opera, non invoca gli dei della città, le cui immagini dorate sono nel foro, mai i dodici dei, sei maschi e sei femmine, che sono i massimi patroni degli agricoltori:  neque tamen eos urbanos, quorum imagines ad forum auratae stant, sex mares et feminae totidem, sed illos XII deos, qui maxime agricolarum duces sunt. (Varrone I, 1)  Questi dei rustici sono Giove e Tellus, padre Cielo e madre Terra, il Sole e la Luna; Cerere e Bacco, dei degli alimenti solidi e liquidi; Minerva dea degli ulivi e Venere degli orti e giardini; Ruggine e Flora, l’uno le malattie fungine dei raccolti, l’altra dea della vegetazione; Linfa e Buon Evento, la prima l’acqua che vivifica la terra, il secondo, qui maschile, la dea Fortuna o Abbondanza, quella che regge nell’iconografia antica la mitica Cornucopia, il corno dell’abbondanza, corno bovino da cui scaturisce ogni frutto della terra.

Luogo d’incanti e lusinghe, la città è anche teatro di feroci contese politiche e di spietate lotte per il potere cui il pacifico vivere delle campagne si pone in netto contrasto.

Nel mito della fondazione di Roma traspare un passaggio storico fondamentale dell’umanità nella sua evoluzione, quello della differenziazione  e del conflitto tra l’economia e la cultura pastorale  e quella più specificamente agricola dei villaggi che, accresciuti di numero e benessere, specializzatisi in forme di artigianato sempre più raffinato si avviano alla trasformazione in città. A Romolo, divenuto agricoltore sedentario, per volontà degli dei tocca in sorte il tracciare il solco a delimitare la prima città dei Latini e marcare la proprietà di terre ed edifici,  invalicabile pena la morte al gemello Remo pastore: alle greggi viene proibito pascolare laddove, sui fertili campi, cresce il grano e si coltivano ortaggi e frutta intorno ad un villaggio.

I pastori ed il loro bestiame errante sono respinti dalle terre più produttive verso quelle più marginali e meno fertili; nella nuova economia agricola gli animali domestici vengono allevati in numero di capi limitato ed in rapporto alle superfici dei terreni stessi lasciati a riposo ed a foraggio dopo lo sfruttamento cerealicolo, vengono tenuti in recinti e stalle e lasciati al pascolo solo dopo i raccolti, a spigolare e concimare la terra prima dell’aratura.

La leggenda di Romolo e Remo riflette pur inversamente quella biblica di Caino ed Abele. Per lo stesso motivo, Caino agricoltore uccide il fratello Abele pastore e dopo l’omicidio fonda una città. Mentre in Lazio gli dei sono dalla parte di Romolo, capostipite di agricoltori guerrieri sedentari, nella tradizione di un popolo di pastori nomadi e predoni all’occorrenza, quali gli ebrei, il loro dio, distruttore di città quali Sodoma e Gomorra, è dalla parte di Abele.

Indubbiamente, la necessità di delimitare i campi coltivati e di proteggerli dalle incursioni dei pastori e dalle loro razzie che non riguardavano solo i foraggi, indusse alla formazione del concetto giuridico di proprietà privata delle terre di cui anteriormente l’uso era di diritto comune.

Decadenza dell’Agri-Cultura

L’Agri- Cultura fu dai Latini  tenuta   in grande considerazione tanto da essere celebrata da molti autori classici sia per quei suoi alti valori e virtù morali e spirituali oltre che riconosciuta quale supporto indispensabile alla sopravvivenza della città e dei cittadini.

I primi romani furono allevatori e coltivatori, all’occorrenza forti e valorosi guerrieri, temprati dalla vita agreste. Convocati in caso di consulto e necessità nell’Urbe, onorato il loro dovere civico politico e militare, ritornavano alla semplice vita dei campi, ritenuta moralmente “pia e virtuosa”.  Tutte le “gentes” romane avevano proprietà nell’agro, come veniva definita la campagna coltivata. In premio a chi serviva nell’esercito, patrizio o plebeo che fosse, se giungeva a fine carriera,  venivano inoltre assegnati appezzamenti di fertili terreni nelle aree di nuova conquista. La tradizione romulea di assegnare un’esigua estensione di terreno ad ogni cittadino, circa due iugeri, detta heredia, sufficiente al fabbisogno di autosufficienza diretta di una famiglia, fu nel tempo dimenticata e, in particolar modo dopo la seconda guerra punica, l’accumulo di terre in grandi latifondi divenne comune tra i ricchi patrizi dell’urbe.

Varrone scrive la sua opera nel 37 a.C., già anziano, mentre Virgilio compone con altri scopi le sue Georgiche. Virgilio,  in un periodo post guerra civile in cui una crisi agricola era emergente intende rammentare ai suoi contemporanei quale sia l’arte antica di far produrre i campi, allora già coltivati  con metodi intensivi  nei grandi latifondi mediante il lavoro degli schiavi, fattori e servi e poco fruttuosi.  Varrone, promuovendo l’idea del progresso continuo, si preoccupa di suggerire nuove attività industriose per ricavare maggiori rendite dalle tenute agricole. Lo scrittore latino pone anche un accento nostalgico alla sua prosa, ricordando il passato come un tempo di prosperità a paragone dei tempi moderni e celebrando non senza una certa retorica i valori tradizionali, l’etica e la cultura rurale degli antenati pastori e contadini, uomini liberi e diretti coltivatori dei propri piccoli fondi.

Virgilio, dal canto suo, scrive le sue rime su suggerimento di Mecenate, potente e ricco patrizio amico  e consigliere del neo primo imperatore Augusto, il quale  divenne il più grande latifondista dell’epoca, con circa un terzo delle terre migliori dell’impero ed in grado di condizionare a suo favore anche i mercati delle merci agricole. Ciò nonostante, la preoccupazione di Augusto era quella di dare terre a 500.000 veterani dell’esercito e alle loro famiglie e trasformarli in piccoli coltivatori diretti. Una figura già presente nell’antica Roma, quella dei piccoli proprietari lavoratori dei propri terreni, i quali in tempi di crisi si offrivano anche come braccianti, affiancando gli schiavi al lavoro nei grandi latifondi.  A tutta questa umile gente, Virgilio, anch’esso di umili origini, rivolse principalmente  il suo lavoro di educazione in sintonia con le intenzioni imperiali : “E tu sopra tutti, o Cesare…  (che) come me hai avuto pietà dei coloni inesperti” (ignaros…viae mecum miseratus agrestis .. -Georg. I, 41)

Nonostante solo un terzo degli esametri dell’intero poema illustri specificatamente cognizioni agrarie, ed il poeta stesso ammetta che non sia sua intenzione abbracciare tutto il sapere agronomico, quest’opera mira espressamente a fini educativi.

Il mito del buon “cives romanus” il quale si ritira dopo un’onorata vita pubblica, politica e militare, nella sua villa di campagna a dedicarsi anima e corpo alla vita agreste dei suoi antenati, progressivamente si opacizza fino a diventare una figura retorica. La vita urbana nell’epoca imperiale con i suoi vantaggi e comodità, i suoi lussi nonché vizi e mollezze, cui l’uomo è per natura sensibile, attrae lusinghiera il patrizio così come il plebeo. Sempre più di rado il pater familiae si occupa direttamente della cura della fattoria, lasciandola sovente in balia di sovrintendenti e schiavi e tendendo più a realizzarne profitti da coltivazioni intensive che a viverci come era costume, per mantenere la sua vita cittadina.

Così scrive infatti Columella, vissuto nel I secolo: “ … abbiamo consegnato il mondo rurale, che i migliori dei nostri antenati hanno trattato con massima cura ai peggiori dei nostri servi, come a dei carnefici … tutti noi capi famiglia abbiamo riposto la falce e l’aratro per strisciare dentro le mura della città e battiamo ora le mani nei circhi e nei teatri invece che nei campi di grano e nelle vigne.. smaltiamo le nostre indigestioni quotidiane con bagni caldi … spendiamo le notti in licenziosità ed ubriachezza, i nostri giorni a giocare d’azzardo ed a dormire e ci consideriamo fortunati nel non vedere ne il sorgere ne il tramontare del sole”.

Il problema di quel tempo della riduzione della produttività dei campi,  imputata allo sfruttamento intenso delle terre agricole nel passato, alle calamità naturali, alla terra che come ogni cosa invecchia ed addirittura al cambiamento climatico non trova affatto d’accordo Columella la cui voce, nel suo “De Re Rustica” si eleva dal coro dei lamenti fatalistici dei principi dell’Urbe.

Annota innanzitutto l’autore, non senza un certo rammarico, come  “In questo Lazio e terra di Saturno, dove gli dei hanno insegnato a produrre i frutti dei campi, noi mettiamo (oggi) all’asta il grano importato da oltremare, così che non abbiamo  a patir fame; e riforniamo i nostri magazzini di vino dalle isole Cicladi e dalla Spagna e dalla Gallia”.  Le cause per Columella sono altre, riassunte nell’antico proverbio già in auge : “l’occhio del padrone ingrassa i campi”, e non ultimo il fatto che l’Agricoltura “nella mentalità e nella considerazione comune sia divenuta un sordido lavoro ed affare di profitto che non necessita più di maestria e precetti” e, “lontano dalla verità è ritenere, come sostenuto da molti, che occuparsi di agricoltura sia estremamente facile e non richieda affatto acutezza mentale”. Da parte sua, ci tiene a dire: “ quando guardo alla magnificenza del tutto come all’immensità di un grande corpo o come alla minuteria delle sue innumerevoli parti quali singole membra, temo che i miei ultimi giorni mi possano raggiungere prima che io possa arrivare a comprendere l’intera scienza agricola. Chi professi di essere maestro in questa scienza deve avere una sagace conoscenza del mondo naturale”. (Col.Prefazione al De Re Rustica)

Columella, nato a Cadice, tribuno ed appassionato esperto agricoltore egli stesso, ci ha lasciato dodici volumi giunti a noi pressoché integrali del suo “De Re Rustica”, i quali furono riscoperti agli inizi del ‘400. La sua opera è importante non solo dal punto di vista puramente letterario, ma anche perché costituisce la maggior fonte di conoscenza scientifica dell’Agricoltura romana, insieme ai libri di Varrone, Virgilio, Catone, Palladio e pochi frammenti di altri autori classici. Testimonia inoltre l’inizio della decadenza di questa arte e scienza “magna” come era definita e considerata, progressivamente passata in secondo piano all’emergere della civiltà urbana. Una decadenza che peggiorerà ulteriormente con l’affermarsi prima del cristianesimo e poi nei secoli bui del medioevo, in cui l’agricoltura diverrà appannaggio quasi esclusivo dei monaci e dei disprezzati servi della gleba: quei rozzi ed incolti villani discendenti dagli abitanti dei villaggi rurali, i  “pagi” da cui vennero i rustici nominati pagani per il loro superstizioso attaccamento alla madre terra ed alla antica religione della Natura, così difficile da estirpare sia con la parola che il bastone, portatori di una umile cultura rurale opposta agli sfarzi di chiese e castelli.

 

Rinascimento dell’Agri-Cultura 

I Longobardi che scesero ed occuparono parte dell’Italia nel VI secolo si trasformarono da guerrieri in agricoltori ed allevatori e, dominati dai Carolingi finirono nei secoli successivi a dover cedere le loro terre alla nobiltà feudale od alla Chiesa e divenirne i contadini, insieme alle sopravvissute genti di stirpe romana, bizantina o di altre tribù barbariche stanziatesi nella penisola.

Agricoltura, pastorizia ed artigianato, caccia e pesca, raccolta dei frutti selvatici furono per secoli le attività economiche e la vita stessa dei villici, la maggioranza della gente che viveva nei distretti e nei villaggi rurali di autosufficienza a livello domestico e di piccole comunità così come nei monasteri i monaci. Il signore aristocratico od ecclesiastico di rado si occupava personalmente di agricoltura, considerata pratica vile da rozzi servi della gleba e preferiva  vita di corte quando non affari ed intrighi politici nonché dedicarsi ai fatti d’arme. Il castello, il borgo e l’abbazia fortificata sono le caratteristiche architetture medievali e conflitti tra signorotti locali e guerre tra imperatori e papi o loro vassalli sono all’ordine del giorno con conseguenti saccheggi, devastazioni e carestie ai danni delle campagne, già poco produttive per l’ignoranza della dimenticata arte agricola, salvo eccezioni.

Fu presso i monaci che molti testi antichi, scampati dai roghi dell’intolleranza cristiana del IV e V secolo vennero ricopiati, diffusi e letti. Tra questi, il trattato in quindici volumi di Rutilio Tauro Palladio, l’ Opus Agricolturae o anch’esso detto parimenti alle opere di Varrone e Columella De Re Rustica, il quale non solo trovò fortuna nelle mani dei copisti ma fu per tutto il medioevo un apprezzato testo scientifico di Agricoltura, presente in numerose biblioteche, in particolare in quelle dell’ordine cistercense e fu tradotto anche in diverse lingue volgari. Dopo Palladio, che visse nel IV secolo, si verificò un vuoto di almeno ottocento anni in cui non fu prodotta alcuna opera degna di menzione in materia di Agricoltura, fino a quando il bolognese Pietro de’Crescenzi non scrisse il suo Liber Ruralium Commodorum nei primi anni del ‘300, ispirandosi al Palladio medesimo. Fu seguito più tardi, durante il Rinascimento, che diversi altri autori riportarono in auge l’antica scienza dell’Agricoltura, nell’ambito di una generale rivalutazione della Civiltà Classica quale età aurea da cui l’umanità era decaduta, ma che rimaneva quale esempio e modello cui ispirarsi e dalle cui radici trarre nuova linfa per lo sviluppo di una nuova civiltà.

Agli inizi del ‘400, si deve a Poggio Bracciolini la scoperta nella biblioteca  del monastero di San Gallo, in Svizzera, di una copia d’età carolingia del perduto De Re Rustica di Columella. Opera sino ad allora considerata perduta, di cui il de’ Crescenzi conosceva solo alcune citazioni riportate dal Palladio, suscitò un grande interesse nei letterati rinascimentali i quali, entusiasti, fecero di questo testo in particolare e non senza ragione, una sorta di bibbia agricola. Fu diffuso prima in forma manoscritta anche in preziose edizioni, come il codice miniato E39 conservato presso la biblioteca Vallicelliana di Roma ed in seguito fu stampato in numerose copie, anche di notevole pregio, tradotte in diverse lingue ed in ogni parte d’Europa.

Caratteristica comune dei  trattati degli agronomi rinascimentali e dei due secoli successivi è non solo l’ammirazione per gli antichi testi classici di Agricoltura, ma anche e soprattutto l’ispirarsi come già il de’Crescenzi ai loro principi, contenuti e modelli ed il porsi, pur con qualche revisione ed aggiornamento quali eredi di Catone, Varrone, Columella, Palladio ed altri, tra cui Plinio. Nel ‘500 venne anche recuperata e tradotta in latino ed in diverse lingue europee un’opera greca bizantina risalente al X secolo, i Geoponica, una sorta di enciclopedia agraria composta di venti libri, già parzialmente nota in occidente nel basso medioevo. Nel medesimo secolo, l’intero corpus dottrinale delle opere classiche di Agricoltura fu pressoché completamente recuperato così come ne possiamo disporre ai giorni nostri.

Oltre all’opera del citato de’Crescenzi, anche l’ Obra de Agricultura dello spagnolo Gabriel Alonso de Herrera, leVinti giornate dell’agricoltura dell’italiano Agostino Gallo, i Rei rusticae del tedesco Konrad Heresbach e ilThéatre d’agriculture et mesnage des champs del francese d’Olivier de Serres ebbero in seguito un’intensa circolazione in Europa, prima come manoscritti ed in seguito stampati, sia in versione originale che tradotte. Promossero una vera rinascita del sapere agricolo, sia quale eredità antica che nuovo inizio nel segno di una continuità dal passato, al presente ed al futuro dell’Agricoltura quale arte e scienza cosi come la definì Varrone:“ Non solo è arte, ma anche necessaria e magna; ed è anche scienza, di cosa sia da coltivare e come, affinché la terra in perpetuo produca i massimi frutti”. (non modo est ars, sed etiam necessaria ac magna; eaque est scientia, quae sint in quoque agro serenda ac facienda, quo terra maximos perpetuo reddat fructus. ( Varro. I,3)

Il de’ Crescenzi per primo, seguito dagli autori successivi fioriti in epoca rinascimentale, recuperò l’idea dell’Agricoltura quale arte nobile, come già presso gli scrittori latini citati,  che si addice al signore proprietario di terre, finalizzata ad utilità e diletto, utilitatas et delectatio, riprendendo in questo  quanto già Varrone affermava:“… gli agricoltori esperti a due scopi si debbono volgere, all’utilità ed al piacere. Utilità fine al frutto, piacere al diletto, ma prima viene l’utile, poi il dilettevole” – (profecti agricolae ad duas metas dirigere debent, ad utilitatem et voluptatem. Utilitas quaerit fructum, voluptas delectationem; priores partes agit quod utile est, quam quod delectat –Varro I, 4)

Utilità nel produrre innanzitutto l’autosufficienza di una fattoria a ciclo chiuso rinnovabile e perenne e garantirne il benessere agli abitanti, umani, animali e vegetali, ai padroni come ai dipendenti, educando questi ultimi alla conoscenza ed alla pratica di questa arte e scienza; a riguardo, pur mantenendo una certo pregiudizio aristocratico verso i villani, considerati ladri ed approfittatori, il signore in villa è chiamato ad un atteggiamento umanitario e caritatevole verso i sottoposti, prendendosi cura del garantir loro salute e migliori condizioni di vita, beninteso nell’interesse stesso del padrone.   Diletto non solo nel saper apprezzare e godere dei piaceri e delle bellezze della vita in campagna, benefica al corpo così come allo spirito, dedicandosi al giardinaggio, alla caccia ed alle passeggiate a cavallo, cui coinvolgere anche le signore altrimenti annoiate se non schifate della vita rurale, ma anche nell’occuparsi personalmente con occhio attento e conoscenza di causa di agricoltura, non delegando pertanto la gestione della tenuta a fattori e risiedendo quanto più possibile nella propria dimora rustica. Quella villa di campagna cioè, spesso elegante e confortevole, che dal XVI secolo inizierà a diffondersi nel contado, sostituendosi alle case torri fortificate dei signorotti medievali e diventando una sorta di costume dell’aristocrazia e dei ricchi mercanti urbani i quali traevano dalle loro tenute, se ben governate, reddito ed  anche ricchezza. Il signore, all’inizio della buona stagione si trasferiva “in villeggiatura” dal suo palazzo cittadino, cui faceva quindi ritorno per svernare, ai primi freddi o al termine dell’anno agrario.

I manuali di Agricoltura rinascimentali e del successivo periodo non sono però esclusivamente rivolti al grande latifondista  nobile, ecclesiastico o ricco mercante, ma sono estesi a qualsiasi possidente agrario, anche  piccolo, riprendendo in questo un verso di Virgilio, riportato da Columella  il quale, celando una certa saggia prudenza, diceva: ammira pure le grandi tenute ma coltivane una piccola.  (laudato ingentia rura, exiguum colito -Virg. Georg. II, 412-413). Un concetto ribadito in altre parole pure dal Palladio quando afferma : “più fecondo è un piccolo campo ben curato di una grande superficie trascurata” (Fecundior est culta exiguitas quam magnitudo neglecta – Palladius I, 6-8).

Fu politica dei sovrani “illuminati” favorire anche la piccola proprietà contadina tramite l’assegnazione di terre espropriate ad enti ecclesiastici. Un piccolo fondo poteva garantire l’autosufficienza di una famiglia rurale, soprattutto se l’economia locale era protetta da dazi contro le speculazioni dei commercianti e degli industriali borghesi. A questa politica di assegnazione delle terre ai contadini si opposero però i grandi latifondisti da un lato e il fatto che i contadini in genere non avevano comunque sufficiente denaro per riscattare le terre, le quali, dopo gli espropri agli enti ecclesiastici, vennero acquistate invece in prevalenza da mercanti e ricchi borghesi. La rivoluzione francese e i successivi moti unitari risorgimentali travolsero quindi l’ancien regime e la sua economia agraria fondata sulla moneta aurea ed introdussero l’attuale sistema economico e finanziario di libero mercato, moneta cartacea inflazionata, borse merci e banche, trasformando progressivamente le masse contadine in proletariato urbano asservito al profitto capitalista della trionfante borghesia.

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