L’Ecosistema Coltivato : selvatico e agricoltura

L’ECOSISTEMA COLTIVATO: SELVATICO E AGRICOLTURA (parte prima)

 

Un terreno qualsiasi, lasciato incolto, o messo a nudo per qualche ragione, uno sbancamento, una frana, un incendio è una lesione all’epidermide di Gaia, viene ricolonizzato dalla Natura e riportato al selvatico. Come sulla nostra pelle si cicatrizza una ferita superficiale.

Quello agrario si riveste immediatamente di un manto erboso di cosiddette “infestanti”, secondo la vulgata agrochimica, ossia specie che nessun agricoltore vorrebbe tra le sue coltivazioni, dalla gramigna allo stoppione spinoso, e quindi chenopodio, amaranto, persicaria e tante altre erbe i cui semi giacciono latenti nel suolo indisturbato e trovano le condizioni adatte per germinare. O semi portati dal vento, dagli uccelli e da altri animali, indigeriti e rilasciati tra le loro feci che ne fanno da corredo di primo concime nutritizio; o semi aggrappatisi nel passaggio attraverso altri luoghi incolti alle loro piume e pellicce e da queste caduti su quel terreno.  Non solo semi di erbe, ma anche di cespugli e piante, dai rovi, alle vitalbe e quindi pioppi, acacie, aceri, biancospini, querce, di tutto e di più che ci possa essere disponibile viene impiegato dalla Natura alla rigenerazione biologica di quel terreno. Ci sono piante azoto-fissatrici, tutte concorrono con il loro decadimento alla formazione di Humus forestale. Alcune affondano le loro radici in profondità per riportare in superficie minerali che verranno quindi resi disponibili al nutrimento vegetale di altre piante.

In Primavera ed Estate un terreno incolto, rivestito, esplode della bellezza di fioriture e profumi, attira api ed insetti, inizia a popolarsi di vita biologica.

Quel terreno è irradiato di luce e calore solare nell’ordine misurabile di centinaia di watt a metro quadro, variabili a seconda delle stagioni, in cui diverso è l’angolo di inclinazione dei raggi provenienti dalla nostra fonte primaria della vita. Non dimentichiamo mai neppure il fatto che tutti gli elementi terrestri solidi, gassosi o liquidi derivano dalla scissione nucleare dell’Idrogeno in Elio, un atomo e un elettrone diventano un altro atomo con due elettroni, e quindi, tre nel Litio , poi quattro, sei come nel Carbonio, sette nell’Azoto o otto come nell’Ossigeno e così via. Elementi che sono nell’Universo delle Galassie oltre che componenti della materia inorganica ed organica del nostro pianeta. Nel Cosmo esistono già, inoltre, anche forme di vita organica, molecole e batteri che resistono nel vuoto e a enormi sbalzi termici, dallo zero assoluto di scala Kelvin alle ustionanti radiazioni solari le quali, oltre la nostra pellicola protettiva dell’atmosfera terrestre e delle fasce elettromagnetiche, sono mortali al pari del gelo estremo.

Qui, sulla Terra, in quel terreno incolto e spoglio che si rigenera alla vita selvatica, gli elementi minerali si compongono su modelli predefiniti a creare la struttura delle cellule vegetali, delle radici, fusti, foglie, fiori e semi. L’Energia solare fa da catalizzatore al processo di Fotosintesi, in cui dalla linfa radicale e dall’atmosfera nelle piante si sintetizza  la molecola fondamentale di tutta la Catena Alimentare, quella dell’Idrogeno e del Carbonio, alla quale si aggregano gli altri elementi a formare gli zuccheri, la cellulosa ed altri composti dei tessuti ed organismi vegetali. Questo è il grande miracolo della Vita che accade ogni momento, da milioni di anni, che passa inosservato e dimenticato, come banale è anche il sorgere e tramontare degli astri e dei pianeti, che avviene nell’indifferenza più inconsapevole degli esseri umani moderni. Gli animali sono invece molto più sensibili, celebrano a modo loro, ogni giorno, la Vita: pensiamo al canto degli uccelli all’alba, alle grandi sinfonie che in primavera, alla mattina presto, ancora col buio, si alzano ovunque, dalle siepi e dagli alberi, dalle erbe dei prati. L’arrivo e l’esplosione del nuovo ciclo vitale dell’anno è marcato dal canto degli uccelli sino all’estate, le cui notti sono intrise dei canti di grilli, rane e cicale, degli assoli degli usignoli.

Tornando al tema, l’Energia solare, catalizzatrice della Fotosintesi, si fissa nelle molecole vegetali come energia chimica di legame, la quale, ad ogni passaggio nei metabolismi animali viene rilasciata sotto forma di calore, secondo la legge della termodinamica, sino all’Humus fine e principio di ogni processo vitale. I corpi animali erbivori si nutrono di materia vegetale, traggono dalla frantumazione ruminale e gastrica delle molecole gli elementi minerali materiali necessari alla costituzione e mantenimento dei loro tessuti ed al funzionamento dei loro organi ma ne traggono anche l’energia vitale che si libera come caloria, che noi misuriamo in unità di Joule, dai corpi caldi degli animali al calore dei compost vegetali e dei cumuli di Letame. Ci nutriamo anche di Energia, di quella degli alimenti come del “Prana”, dell’Ossigeno ed Azoto, di altri gas rari dell’atmosfera, scientificamente definiti.

In quel terreno incolto, spoglio agli inizi, in cui la Natura riprende la sua opera di colonizzazione del selvatico, la massa vegetale che si crea altro non è che un accumulo di Energia solare immagazzinata nei legami molecolari delle piante, migliaia e milioni di calorie si fissano sulle strutture fondamentali del Carbonio e Idrogeno. Il Carbonio, in particolare, viene sequestrato, si dice, dall’atmosfera in cui si trova come gas e fissato al suolo, nelle piante e nel terreno. Quel terreno prima incolto diventa ricco di Energia solare immagazzinata nella massa vegetale, la quale richiama come ospite e nutrimento le specie animali, si popola di vita, dalle forme più minuscole di batteri funghi e protozoi, all’edafon sino agli Erbivori, agli Onnivori ed ai Carnivori. Si ricrea un ecosistema naturale, una nicchia di ecosistema che provvede autonomamente dall’ingerenza umana all’organizzazione spontanea della propria sopravvivenza attraverso cicli vitali perenni e rinnovabili. La Natura non ha bisogno dell’uomo per esistere, ne precede l’avvento di milioni di anni e la nostra comparsa accadde quando la Natura stessa creò le condizioni adatte e favorevoli ad accoglierci nei propri ecosistemi selvatici, fornendoci di ogni nutrimento e materia prima necessaria alla nostra sopravvivenza, sviluppo ed evoluzione. Nella Catena Alimentare, non produciamo nulla, siamo commensali,  ospiti alla mensa di Madre Terra.

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Pubblicato: Circolo Vegetariano V V. T T

 

L’ECOSISTEMA COLTIVATO: SELVATICO E AGRICOLTURA (2° parte)

“Nella Catena Alimentare non produciamo nulla, siamo commensali, ospiti alla mensa di Madre Terra”: così ho concluso la prima parte di questo scritto, ed in sé questo era vero per i nostri antenati cacciatori e raccoglitori i quali trovarono nutrimento e materie prime rinnovabili necessarie alla loro sopravvivenza nell’ambito degli ecosistemi naturali, in particolare in quello del pascolo, nelle fasce temperate del pianeta.

Ed è vero anche oggi, in quanto non è l’uomo che crea direttamente i propri alimenti, anche se modifica batteri, piante e animali in laboratori di genetica e si crede dio in terra, ma la Natura stessa, la quale, come da sempre, vi provvede benigna: l’uomo semplicemente interviene ed assiste al processo produttivo naturale, ne asseconda le  dinamiche ed i cicli, lo dirige ai fini voluti.  Pone un seme nel terreno smosso, il quale  germina perché ogni seme germina comunque per propria funzione, venga posto da mano umana o sia caduto al suolo dalla pianta madre. Ogni  fattrice avrebbe i propri vitelli e ogni gallina farebbe comunque le uova, fossero liberi in natura, a prescindere dall’allevatore. Coltivare è un atto di cooperazione con Madre Terra, di cui siamo custodi guardiani e non padroni assoluti, che avremmo il dovere morale di consegnare alle nuove generazioni, ai nostri figli, migliore di come l’abbiamo ricevuta dai nostri padri. Così la pensava anche mio bisnonno, a cui dobbiamo, suo figlio, suo nipote ed io ultimo l’eredità delle nostra pur poca terra e della tradizione del viverci da contadini.

Riprendendo il filo del discorso precedente riguardo al terreno incolto che si rigenera a riformare tendenzialmente un ecosistema selvatico, il processo naturale prevede che sia il bosco, alla fine, a prevalere, se non viene disturbato non solo dall’uomo, ma anche da un certo tipo di animali, gli erbivori, il cui habitat non è la foresta, ma il pascolo.

Se un cervo o un capriolo frequentano quel terreno, ruminanti come la capra selvatica, o una lepre, ne provvederanno a brucare ogni germoglio di pianta o cespuglio forestale sia perché si nutrono come ogni erbivoro pure  di fogliame e cortecce tenere, ma perché questa opera di disboscamento precoce è in funzione al creare il loro ambiente ideale: la radura soleggiata in cui crescono le erbe foraggere, in cui si forma  il prato stabile naturale, ricco di essenze diverse, non solo altamente nutritizie ma anche salutari per il benessere animale.

Altro fattore del tutto naturale nella creazione di radure a pascolo è l’incendio accidentale della foresta, per fulmine, e su un terreno bruciato la prima essenza vegetale a ricrescere è un manto erboso, che attira gli erbivori.

Un amico pastore mi diceva che le sue pecore non rimangono pregne  se pascolano erba di sottobosco, cresciuta all’ombra, hanno bisogno di foraggi che prendano dal sole tutta l’energia diretta. Inoltre, l’humus forestale è acido, vi crescono solo funghi, fragole, sorbi, alberi da bacche e ghiande, l’erba è amara, gli zuccheri si formano meglio in piena luce.

All’analisi chimica i parametri di fertilità organica dell’humus forestale presentano un medio alto rapporto carbonio/azoto, una media capacità di scambio minerale tra suolo e radici, una mineralizzazione rapida, una umificazione completa della materia vegetale che però è più o meno stabile. Un suolo forestale messo a coltivazione può rendere qualcosa per un breve periodo, la qualità del prodotto non è eccellente, la fertilità si esaurisce in fretta anche per dilavamento ed erosione, può avere forti carenze di calcio e magnesio. D’altra parte anche un humus di sole foglie, lignine ed erba ha poco potere nutritivo, se si fa un compost di questi materiali per l’orto, un grande cumulo si riduce a meno del dieci per cento della sua massa iniziale, ha un basso coefficiente isoumico in termini tecnici, non ha un grande effetto nel suolo, è acido ed andrebbe bilanciato con cenere, alcalina.

Il terreno aperto pascolato dagli erbivori invece, la prateria, presenta altre caratteristiche biochimiche e fisiche, è armonico tra acidità ed alcalinità, ha il potere di mantenere questo equilibrio e tamponarne gli eccessi in un verso o nell’altro, il rapporto carbonio/azoto è anch’esso bilanciato, la capacità di scambio degli elementi minerali con le radici è ai massimi livelli, il complesso argilla humus è stabile, l’umificazione completa e la mineralizzazione lenta, la struttura è sciolta, è ideale per la crescita di un certo tipo di piante alimentari selvatiche per il bestiame stesso, il quale contribuisce quindi a creare il proprio habitat o ecosistema e a produrre il proprio nutrimento.

Che non consiste solo di erbe foraggere,  fogliame e cortecce tenere, ghiande, ma, attenzione, anche di cereali, di vegetali molto zuccherini nelle foglie e radici, di tuberi, leguminose, di frutti dolci: tutti, allo stato selvatico furono originariamente loro nutrimento e lo sono ancora oggi. Si provi a lasciar libero un erbivoro domestico e si vedrà che, dopo una qualche distratta boccata d’erba, punterà dritto all’orto o alla vigna o al frutteto. Quando mai la soia Monsanto della moderna dieta “unifeed” è stata alimento forzato del bestiame da 200 milioni di anni a questa parte?

E non è che la Natura  producesse spontanea questi vegetali ovunque, nei boschi, nelle pietraie o sulle spiagge del mare: questi alimenti crescevano solo ed esclusivamente nei pascoli transumanti del bestiame selvatico, nelle praterie e in particolare nelle golene fluviali, ricche di acqua, di cui anche gli animali tutti hanno un gran fabbisogno, è gratuito dono di Natura e tendono questi ad affollarsi dove ce ne sia in abbondanza, presso le rive di fiumi, laghi, stagni e paludi.

Qual è il fattore chiave della fertilità organica di questi terreni? Sono i letami degli erbivori, oltre alle loro carcasse decomposte al suolo, alle loro pelli, ossa, corna, unghie, sangue, misti a materia vegetale decaduta. Tra i concimi organici “antichi”, che ancora oggi pur a fatica si possono trovare, ci sono il cornunghia, la farina d’ossa, la farina di sangue, i cascami torrefatti di cuoio.

Gli erbivori ruminanti, attraverso il loro particolare metabolismo, trasformano la materia vegetale in humus fertile definito scientificamente anche humus delle praterie o humus agrario, sinonimi perfetti, e solo su questo tipo di humus, per le sue specifiche caratteristiche biologiche e fisiche, crescono bene, in salute e nutritivi, quelli che sono i nostri alimenti vegetali primari, oggi addomesticati, selezionati e migliorati talvolta, o peggiorati, che derivano da quelli selvatici originari: cereali, ortaggi, legumi e frutta.

Questa funzione di produttori di humus fertile è in particolare propria degli erbivori ruminanti, poligastrici, di quelli cioè che hanno tre sacche ruminali oltre allo stomaco, le corna e l’unghia bifida. Nelle tre sacche ruminali la materia vegetale viene scomposta da batteri, funghi e protozoi di ceppi che si trovano normalmente anche sul terreno, si sono adattati alle condizioni anaerobiche dei rumini, vengono ingeriti con il pascolo ed espulsi in parte con il letame. Trasferire bestiame bovino su altri terreni e pascoli lontani, nutrirlo con altri foraggi può causare problemi digestivi agli animali, se nei rumini non ci sono i batteri autoctoni adatti al processo metabolico. Il ruminante è quindi in simbiosi con il terreno che li produce, con i vegetali che vi crescono e di cui si nutre, i quali ritornano al suolo in ciclo perenne come il più potente fertilizzante naturale.

In quel terreno, i foraggi sono per questi animali non solo più appetibili ed odorosi, ma anche più nutrienti e a vantaggio della loro salute. La buona erba e il buon fieno si avvertono nel gusto e colore del latte, del burro e del formaggio, nella qualità delle carni. In quel prato rivoltato con facilità dalla zappa o dall’aratro crescono un frumento grasso che fa profumare il pane ed ortaggi, legumi, frutta, sani e ricchi di sostanza e sapore.

I letami degli altri erbivori monogastrici, mammiferi ed uccelli come gallinacei e colombi, in sinergia con quelli dei ruminanti, sono gli altri concimi organici creati da Madre Natura, ricchi di azoto, fosforo, potassio e altri elementi minerali immediatamente assimilabili dalle piante i quali nulla hanno di inferiore a quelli chimici inorganici, che non servono a nulla se non a fare i profitti delle industrie petrolchimiche che li producono, al pari di diserbanti e fitofarmaci vari, con grande spreco di energia fossile ed elettrica, nonché di risorse naturali finite come gli idrocarburi fossili.

Un terreno ben dotato di humus fertile nell’ambito di un fondo agricolo a ciclo chiuso di bestiame e rotazioni, di sementi e piante autoprodotte ed adattate al tipo di suolo, non ha bisogno di tutte queste porcherie chimiche, il letame è la medicina della terra.

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L’ECOSISTEMA COLTIVATO: SELVATICO E AGRICOLTURA ( terza parte)

La teoria classica del fondo agricolo preindustriale e precapitalista, nel quale era la rendita agraria e/o domenicale e non il profitto lo scopo economico, ha una tradizione che  i primi agronomi latini, i quali la raccolgono e la rielaborano nel modello di villa rustica, affermano di averla ricevuta dagli antichi che vissero in tempi già a loro remoti.

Questo si può ben comprendere se si pensa che l’impianto della villa rustica autosufficiente è concepito come agro-ecosistema modellato sull’osservazione ed imitazione degli ecosistemi naturali del pascolo.

Gli animali domestici, che derivano da quelli selvatici, sono trattenuti sul fondo agricolo non solo quale parte integrante della sua economia organica, ma quale suo fondamento, in particolare della fertilità del suolo da cui dipende la produttività e il complesso della vita biologica dell’organismo agrario.

Scopo dell’agricoltore era e sarebbe quello di produrre per sé stesso e la sua famiglia, quelle di eventuali collaboratori dipendenti, per il padrone della terra quando c’era, per lo scambio di vicinato nonché per il mercato urbano, alimenti e materie prime o trasformate naturali e rinnovabili. Allevare bestiame è un’attività che viene svolta entro i limiti delle risorse producibili destinate all’alimentazione animale, nell’ambito delle rotazioni agrarie tra pascoli naturali, pascoli artificiali e seminativi. Allo scopo concorrevano anche la silvicoltura che veniva normalmente praticata anche in pianura, fonte di foraggio, oltre che legname per vari usi.

Il numero di capi animali necessari al fondo agricolo è chiuso e dipende dalla superficie  e natura dei terreni. Si considera mediamente, ancora oggi in agricoltura organica, un numero di capi di bestiame grosso che si aggira su un capo di unità bovina adulta (UBA) per ettaro di superficie agricola utilizzabile (SAU), da un minimo di 0.5 ad un massimo di 1.5, oltre il quale occorre acquistare foraggi dall’esterno, o significa  avere un fondo veramente ricco di risorse e massimamente fertile e produttivo.

Essendo l’economia dei fondi tradizionali contadini  autosufficiente, si cercava di evitare ogni costo di materiali che non fosse possibile auto produrre con una saggia e lungimirante gestione, non solo foraggi, ma anche sementi e concimi innanzitutto : questo è il principio di sostenibilità ecologica, che per gli antichi era naturale ed oggi invece andiamo cercando come una novità.

Mia madre mi diceva inoltre che da terziari (neppure mezzadri, ossia ad un terzo in natura condiviso con un altro contadino e il padrone del fondo) si producevano tutto in casa, tessuti di canapa e lino compresi, escluso il sale per i salumi e l’olio per le lampade. Non mille anni fa, ma prima dell’ultima guerra.

Gli animali erano allevati da vita e le fattrici, come i maschi validi, di ogni specie, erano preziosi, ben trattati e gelosamente custoditi. Un paio di buoi valeva quanto oggi un grosso trattore, ne avevano la medesima funzione, e certo non era intelligente quanto stolto sfruttarli sino allo sfinimento, mal nutrirli e maltrattarli. Il bovaro esperto sapeva che più del bastone vale una buona strigliata, il tono della sua voce, la sua mano che porge un pugno di farina o di fieno, il condurlo all’abbeverata. Ogni animale era chiamato per nome e faceva parte della famiglia contadina, si lasciava avvicinare, toccare e mungere, nel caso delle vacche, delle pecore o capre. I maiali giravano liberi e come i cani rispondevano al richiamo, il pollame accorreva in massa incontro alla “rezdora” non appena questa usciva dalla porta di casa, la seguiva ovunque come una corte starnazzante, che veniva smarrita con sventolate di ramazza dal voler infilarsi anche in cucina.

Il rapporto tra esseri umani ed animali è forse una delle esperienze più belle che ci possano accadere, ma non parlo di quello a volte maniacale odierno con barboncini rasati con il cappottino o di gatti d’appartamento, cui ci siamo ridotti inurbandoci e vivendo con la natura madre di parchi ed aiuole cittadini, o che vediamo nei documentari, o consumiamo nelle vacanze come un prodotto alternativo presentando la tessera di una qualche associazione ambientalista per avere sconti particolari.

L’allevamento del bestiame domestico produceva un aumento di capi che costituivano un surplus rispetto alle risorse ad essi destinate, e venivano quindi tolti dal ciclo chiuso del fondo: ceduti da vita o da macello, consumati dalla famiglia contadina e/o padronale. Erano voce di rendita del fondo, al pari di cereali, ortaggi, frutta ed altri prodotti, del latte e dei formaggi, delle uova.

Il rapporto tra la vita e la morte era vissuto come destino ineluttabile dell’esistenza; il vivere in natura e dei frutti della terra e del lavoro umano non permetteva sofismi di alcun altro genere, la realtà della sopravvivenza diretta non lo permetteva. Tutto questo non ha nulla a che spartire con l’allevamento industriale moderno e il consumo di massa di carne e prodotti animali.

Il cacciatore, come il pescatore, non si poneva scrupoli di coscienza nel cacciare le sue prede, le quali erano il suo alimento naturale, come la gazzella per il leone, ma la sua arte venatoria sapeva quelli che erano i tempi di caccia e quelli di rispetto della riproduzione  e conservazione del patrimonio della fauna selvatica: conosceva per pratica la natura meglio di un professore di biologia e non sterminava mai una specie sino all’estinzione da un territorio, era stolto e controproducente.

Lasciava sempre vivo il “seme”, da cui si sarebbe riprodotto nuovo raccolto, selezionando i capi “maturi”. Uccidere un cucciolo era un crimine. Questo me lo insegnò mio padre che era anche cacciatore e pescatore, come tanti, se non tutti i contadini, suo padre e suo nonno. Appese al chiodo per sempre la sua doppietta e la sua lenza, quando vide che caccia e pesca erano diventati solo uno stupido sport per cittadini in cerca di svago e divertimento, di gente che faceva altri mestieri e non aveva affatto bisogno di integrare la mensa contadina domenicale con selvaggina di stagione o il venerdì con pesce di fiume. Mi disse, quasi d’autorità, di non diventare mai cacciatore o pescatore, pur avendomene insegnato, io bambino che lo seguivo, i rudimenti dell’arte.

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L’ECOSISTEMA COLTIVATO: SELVATICO E AGRICOLTURA ( quarta parte)

Nei capitoli precedenti ho esposto, pur a grandi linee, quali siano i principi teorici dell’ecosistema coltivato quale riproduzione artificiale di quello selvatico del pascolo, sottintendendo che l’Agricoltura Organica ne sia tradizionale arte e scienza .

Un ecosistema coltivato è frutto di un progetto che deriva dalla sua teoria, la quale si desume dalle leggi naturali della catena alimentare delle zone temperate del pianeta.

Osservando un ecosistema selvatico originario del pascolo, che oggi non esiste più, gli elementi che lo compongono sono vegetali ed animali, biologici, fisici e chimici in interrelazione ecologica: ogni elemento è necessario ai fini dell’insieme, in funzione di creare un’unità organica complessa di ecosistema, nel quale l’energia solare perenne ne sostenga il ciclo continuo e rinnovabile.

Tradotto in pratica, significa, organizzare su piccola, media o grande scala questo modello: 1)fasce marginali boschive 2)prato stabile 3)seminativi a rotazione tra prati artificiali e coltivi arborati di frutta, viti ed olivi 4) orto-frutteto-giardino domestico con erbe officinali e fiori presso la corte colonica 5) corte colonica 6) domus rustica.

1)fasce marginali boschive. Il bosco e le sue essenze forestali miste hanno una funzione vitale importante se non primaria ai fini dell’equilibrio ecologico di un agro-sistema organico. Creato ai confini del fondo agricolo ne forma una cintura vegetale in cui si crea una nicchia ecologica ricca di vita propria ed il selvatico trova il suo ambiente protetto: uccelli, rettili, insetti, anfibi, mammiferi. Se ogni fondo contiguo ne fosse dotato, si creerebbero corridoi faunistici collegati a parchi fluviali. Il bosco misto è una risorsa di alimenti per animali e umani, fogliame e ghiande, semi, bacche, piccoli frutti come sorbi, sambuchi, meli e peri selvatici. Disposto in file ai margini del fondo e in siepi longitudinali che interrompono i campi coltivati, ha funzione di frangivento e di creare microclimi o cosiddette trappole solari, in cui il calore del sole viene trattenuto al suolo meglio che non in grandi estensioni aperte. Il fogliame portato dal vento si sparge sui seminativi a creare humus. Nel sottobosco si formano stratificazioni di humus forestale che si mescola a quello animale quando gli animali al pascolo nell’adiacente prato stabile vi possono aver accesso cercando, come in natura, riposo all’ombra, con beneficio per le piante stesse.

È una grande risorsa di legname combustibile e da lavoro, necessita di lungo tempo per crescere e produrre piante mature.

2)prato stabile. Può essere attiguo al bosco come seconda cintura permanente intorno ad un fondo agricolo, carrabile, come cavedagna di servizio ai campi, od occupare ritagli di terreni marginali fuori squadro agrimensorio, o terreni meno idonei per struttura alla coltivazione. Il prato stabile può essere sfalciato da fieno o pascolato in rotazione. Sequestra grandi quantità di carbonio fissandolo al suolo. È anch’esso una nicchia ecologica con propria vita vegetale ed animale.

3)seminativi  a rotazione tra prati artificiali e coltivi, arborati di frutta, viti e/o  olivi

Le unità di misura che utilizzo sono in rapporto alla capacità manuale umana ed a quella animale, integrate con la meccanica di attrezzi e anche piccoli mezzi a motore, frutto di un progresso tecnologico che non va rinnegato a priori, ma utilizzato al meglio ai nostri scopi. La meccanizzazione spinta dell’agrochimica industriale moderna ha permesso il grande travaso di manodopera dalle campagne verso le città, ha di fatto spopolato luoghi che un tempo risuonavano delle voci e della presenza umana sul territorio naturale, nelle fattorie e nei piccoli paesi rurali di contadini ed artigiani.

Ora, se vogliamo ripopolare queste campagne non ci servono grandi trattori e mezzi, quanto piccola meccanica agraria e attrezzi manuali, adatti a piccole superfici di un gran numero di campi e non già a grandi estensioni.

La pratica antica identificò un’agrimensura naturale a misura d’uomo ed animale nello iugero di circa 2500 metri quadrati, che era la superficie media arabile in un giorno da un paio di buoi “aggiogati”, ma variabile a seconda della tessitura del terreno, dei luoghi e della qualità degli animali trattori. È la biolca padana (bi-bulca: due buoi) di circa 3000 metri, la tornatura romagnola sui 2000, l’acro inglese di 4000, il morgen tedesco di 2500 metri, come lo iugero classico.

Una misura che, se dovuta affrontare a mano, non spaventa come l’immensità dei grandi campi aperti moderni, creati in funzione delle grandi macchine a combustibili fossili e dei concimi chimici, dei grandi allevamenti con migliaia di capi.

La saggezza contadina antica da sempre dice : “Ammira i grandi latifondi, ma per te stesso coltiva un piccolo campo”. Massima raccolta dagli agronomi, scienziati, filosofi illuministi preindustriali e precapitalisti , che si interessavano di Economia Civile e proponevano, per lo sviluppo di una Nazione, la distribuzione della terra ai Contadini, in proprietà o possesso a lungo termine. Non grandi estensioni, ma piccole unità poderali a misura di braccia umane ed animali, sufficienti a mantenere una famiglia, coltivabili a policolture miste, cui dedicare la massima cura ed attenzione.

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