Materia Primaria

Introduzione all’intervento : Ricostruzione del paesaggio Agrario, di Alberto Grosoli, nell’ambito di:

Emanuela Ascari

MATERIA PRIMARIA

Inaugurazione 2 giugno 2013 – ore 16,30

Presso Sala Cantelli – Via Cantelli

Museo Civico di Vignola

Incontro con l’autrice, con Milena Bertacchini geologa, con Paolo Ghiddi e Alberto Grosoli imprenditori agricoli 

Il lavoro intende rivalutare la terra, nella sua accezione più ampia, come materia primaria di conoscenza e cultura, attraverso l’allestimento di un archivio di “libri di terre” che vanno a comporre una nuova area disciplinare tra le categorie del sapere di una biblioteca. Alla base di questo lavoro vi è una revisione del paradigma che lega l’essere umano al proprio ambiente secondo una visione ecosofica, ecocentrica piuttosto che antropocentrica,per la quale l’uomo è solo una parte di un ecosistema complesso, e il suo sapere viene in primo luogo dalla Terra. Campioni di terreni, rocce, sabbie, argille, fossili, prelevati nella provincia di Modena con attenzione alle varietà litogeologiche e dei suoli che caratterizzano il territorio, e catalogati secondo il luogo di provenienza, sono i testi di questo sapere. I prelievi sono stati eseguiti con la collaborazione della geologa Milena Bertacchini del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e contattando alcuni imprenditori agricoli locali che coltivano in modo biologico e biodinamico, in una lunga esplorazione del territorio, dalla Bassa modenese all’Appennino Tosco-Emiliano.

Perché di questo si tratta: non di cercare il modo in cui la mente fa luogo, ma il modo in cui il luogo fa la mente.M. Meschiari, 2010

Emanuela Ascari si è laureata al Dams di Bologna e ha conseguito il master Paesaggi Straordinari al Politecnico di Milano. E’ docente del corso di Progettazione di Interventi Urbani e Territoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nella sua ricerca artistica indaga i processi di trasformazione del territorio,principalmente a partire dalla terra, dalle stratificazioni del tempo e della materia. Rielabora paesaggi esplorando la relazione tra l’uomo e il proprio ambiente, tra cultura ed ecosistema.

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Nella presentazione di questo lavoro di Emanuela Ascari c’è scritto: “l’uomo è solo una parte di un ecosistema complesso, e il suo sapere viene in primo luogo dalla Terra.”  E quindi una frase: “Perché di questo si tratta: non di cercare il modo in cui la mente fa luogo, ma il modo in cui il luogo fa la mente”.

Io sono un agricoltore organico, di scelta e passione, ma anche di tradizione familiare, comprendo bene il significato di queste frasi che condivido come fossero mie.

La natura, selvatica e coltivata è un libro aperto e molta della nostra conoscenza di agricoltori, cacciatori, raccoglitori è derivata da una lettura che non è astratta e teorica quanto pratica, ma deriva dall’esperienza di lavorare e vivere a contatto con gli elementi e le forze naturali, giorno dopo giorno, anno dopo anno, generazione dopo generazione che si trasmette la cultura del vivere in campagna, dei frutti della terra e delle nostre opere.

È luogo comune proprio della civiltà borghese ed urbana dipingere l’agricoltore come un contadino rozzo ed ignorante, disprezzare la terra e la natura, il lavoro umano nei campi come infimo.

In casa mia, al contrario, noi siamo stati invece sempre orgogliosi di essere agricoltori, non ci siamo mai vergognati di avere i calli alle mani sporche di terra, la città, pur vissuta, anche attraverso la scuola e in tutte le sue lusinghe, ci è sempre parsa un altro mondo, parallelo e complementare, ma per noi, per me come mio padre e mio nonno, la vita vera è sempre stata quella in campagna, la vera cultura quella dei campi coltivati, del fiume e dei boschi, della caccia e della pesca, della raccolta dei funghi e delle fragole in montagna.

Io, pur avviato alla vita urbana, questa cultura l’ho cercata e ritrovata per mie vie personali, ma tanta parte l’ho ricevuta anche dai miei genitori, nonni e bisnonni, sia da parte paterna che materna. Mia madre è figlia di mezzadri e mondine. Quando pochi anni fa scoprii il De Re Rustica di Columella, mi ricordava, leggendo certe frasi, mio padre, come fosse lui a pronunciarle. Ho conosciuto ed ascoltato inoltre tanti vecchi contadini, sono riuscito nella mia vita anche a viaggiare e conoscere altre realtà agricole, europee e di altri continenti, ho lavorato in altre terre.

L’agricoltura è una scienza ed un’arte. Parlo naturalmente dell’agricoltura organica, non dell’agrochimica moderna, quella super meccanizzata e specializzata, di quell’agricoltura, aggiornata ai tempi attuali come biologica o biodinamica, che non è affatto una novità secondo il paradigma progressista dello sviluppo illimitato, ma ha radici millenarie nel tempo e nella storia umana. Non abbiamo inventato nulla di nuovo, noi moderni “biologici”, tutto quello che facciamo lo facevano anche nell’antico Egitto, in Mesopotamia, i latini, i greci. Questo perché i fondamenti della fertilità organica sono sempre gli stessi, come i semi nascono sempre allo stesso modo, i vitelli pure, la frutta si pota ed innesta, falci, zappe, aratri sono gli stessi che usavano gli agricoltori secoli  e millenni fa, quando fiorenti agricolture furono a supporto di grandi civiltà del passato e l’agricoltura era considerata nobile occupazione degna di un uomo libero, più che lavoro da schiavi. Pane, vino e formaggio esistono da sempre.

Oggi abbiamo i trattori, un tempo i buoi, ma le campagne sono spopolate, un tempo erano invece vissute da una miriade di gente che cantava al lavoro e festeggiava i raccolti, ogni podere aveva una stalla, animali da cortile ovunque, vecchi e bambini, piantate di viti a delimitare biolche coltivate, unità a misura d’uomo e bestie. Il paesaggio è profondamente mutato negli ultimi decenni. La civiltà contadina, secolare se non millenaria, è tramontata, tanti cascinali sono in rovina e molti di più divenuti residenze urbane. I piccoli campi accorpati in grandi estensioni adatte alla meccanizzazione e all’agrochimica. Il bestiame concentrato in grandi allevamenti, il letame è un rifiuto industriale, un inquinante. Pensare che invece è il fondamento della fertilità organica come il bestiame è la chiave di volta della catena alimentare sembra un anacronismo. Abbiamo i fertilizzanti dal petrolio, siamo moderni, e con questi i diserbanti, gli insetticidi, gli antibiotici, le sementi geneticamente modificate, pecore, maiali e vacche clonate.

Mio padre credeva in questo tipo di progresso ed aveva riformato il podere secondo questi concetti industriali e moderni, dalla morte di mio nonno che invece era ancora all’antica, orgoglioso dei suoi salumi, del parmigiano dal latte delle sue dieci vacche modenesi bianche chiamate ciascuna per nome, del vino delle sue piantate miste di diversi tipi di uve, della sue mele lavine. Aveva mezzadri, bovari e braccianti, carri di legno e buoi, sostituiti poi da un piccolo trattore nel 1962, che io ancora custodisco ed uso. Poca terra, non un latifondo, ma tanta gente a lavorare e viverci. Quattro famiglie dove oggi io non riesco a tirarci fuori un reddito decente. Ma c’era anche un Panaro che era una favola a raccontarlo oggi, c’erano le risorgive perenni, c’era l’acqua del canale di Spilamberto che scorreva nei fossi, d’estate, ed irrigava i campi e noi bambini a farci il bagno, nei prati stabili allagati. Terra fertile, ben letamata, e il suono delle coti che affilavano le falci.

Il luogo faceva la mente, per riprendere la frase iniziale, mente che esprimeva un linguaggio contadino, il nostro dialetto fondato su parole, detti e proverbi legati alla terra ed al modo di vita rurale e naturale.

 


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