Coltivare l’Eden

 

Fino alla massiccia introduzione della meccanizzazione, della chimica e delle monoculture industriali introdotto solo pochi decenni fa, l’Agricoltura fu, nei secoli e millenni precedenti, l’organica e sostenibile arte di coltivare la terra, “affinché producesse in perpetuo abbondanza di frutti”, quindi continuamente e rinnovandosi. Arte e Scienza “magna”, come la definì Varrone, scrittore latino del I secolo a.C, tramandata di generazione in generazione già ai suoi tempi, l’agricoltura affonda le proprie origini in una tradizione ancor più remota. Il “biologico” non è una nuova invenzione, è una pratica millenaria di buona e corretta Agricoltura, basata su conoscenze e saperi antichi. Prima dell’agro-industria basata sulla chimica tutta l’agricoltura era organica.

E questo era il sistema agricolo delle ville rustiche, ripreso dal Rinascimento in poi, di cui oggi rimangono solo le vestigia degli antichi splendori nelle nostre campagne, ben ordinate e coltivate in una miriade di piccoli, medi e grandi poderi sino a pochi decenni fa.

Il terreno coltivato dall’uomo è parte di un complesso vivente di elementi naturali quali il bosco, le praterie, l’humus fertile, fauna e flora selvatica e domestica. Ma anche l’acqua nei suoi vari stati, e tutti gli elementi minerali della Terra che compongo suolo e rocce, le radiazioni solari, il calore e la luce, energia primaria che, nella fotosintesi, diventa energia chimica ed attraversa tutta la catena alimentare come calorie sino alle sue ceneri, l’humus.

Oltre al Sole, anche la Luna, che ne riflette le radiazioni, ha relazione con la vita terrestre, e in ultimo non possiamo escludere influenze pur remote anche di altri corpi celesti, pianeti e stelle, la cui luce raggiunge e avvolge ogni angolo della Terra. D’altronde tutta la materia terrestre è di origine cosmica.

Tale materia è risorsa finita di un sistema chiuso in cui la vita si ricrea continuamente secondo modelli predefiniti, vegetali e animali, in cicli organici rinnovabili e perenni, i quali compartecipano a sistemi più complessi quali gli ecosistemi, terrestri e fluviali, marini, naturali e coltivati. Chi pratica agricoltura dovrebbe necessariamente sapere come opera il micro-ecosistema in cui si vanno a mettere le mani.

Anche una azienda agricola è un sistema vivente di relazioni e funzioni ecologiche tra diversi generi e specie, vegetali ed animali. E più si insedia biodiversità più il sistema è ricco di energia e forza propria, si autoalimenta e si auto sostiene. Se non si lascia spazio alla biodiversità e si praticano monocolture, l’intero ecosistema agrario diviene povero dei suoi elementi fondamentali. È povero di energia, di forza, è un sistema ammalato, che ha continuo bisogno di iniezioni di fitofarmaci, nutrizione forzata, antibiotici. Un sistema sano non ne ha bisogno, si auto guarisce, trova la sua via per riequilibrarsi.

Se lasciato incolto, infatti, il suolo terrestre, alle nostre latitudini, viene colonizzato da vegetali pionieri per ricreare il proprio modello di ecosistema, ossia foresta e radure da pascolo, che si ripopoleranno di animali erbivori i quali provvederanno a contendere alla vegetazione arbustiva i loro prati ed inizieranno, nei loro rumini, con il concorso di protozoi, batteri e funghi, il processo di trasformazione della materia vegetale in humus, per fertilizzare la terra in cui crescono i loro stessi alimenti. Originari della catena del pascolo sono anche, allo stato selvatico, cereali, ortaggi da foglia e radice, leguminose, alberi da frutto, oltre alle erbe da pascolo e fieno, i quali sono nutrimento degli animali oltre che nostro. È l’humus del pascolo quello in cui crescevano spontaneamente. Non crescevano all’ombra di foreste, nei suoli rocciosi e desertici, ma dove pascolavano mandrie di erbivori ruminanti selvatici, di cui erano il cibo. Oggi questi animali li ingozziamo a soia e mais ogm, rinchiusi in capannoni industriali.

Se trattato con cura e consapevolezza, secondo questi principi, il suolo si arricchisce di vita micro-biologica, del suo edafon. Questo è l’ultimo anello della catena alimentare. Il primo è quello dei produttori primari, i vegetali, che immagazzinano e distribuiscono energia solare sotto forma di calorie. Nel secondo anello abbiamo i consumatori primari, gli erbivori, nel terzo gli animali che mangiano erbivori, nel quarto i carnivori di animali carnivori e gli onnivori. Segue quindi l’anello dei bioriduttori, che si nutrono di materia decaduta trasformandola in humus.

L’uomo è anch’egli invitato al banchetto della Natura terrestre: negli ecosistemi originari del pascolo fluviale ha trovato le condizioni per potersi nutrire, sopravvivere ed evolversi sino ad oggi, da cacciatore-raccoglitore a coltivatore dei propri alimenti.

La natura terrestre nel suo complesso è un unico grande ed indivisibile organismo superiore dotato di propria forza ed energia, esiste da prima dell’uomo e lo ha generato come una madre e come una madre lo nutre. Anche senza l’intervento umano la Natura si rigenera continuamente, è creazione perpetua in cicli naturali perenni e autosufficienti.

Questo è ciò che l’agricoltore e l’agricoltura moderna si sono dimenticati, pensando ad uno sviluppo industriale dell’agricoltura ottenuto con l’ausilio di grandi tecnologie e della ricerca scientifica ai soli fini di profitto capitalista. Ma il vero lavoro produttivo lo fa innanzitutto la natura, con aiuto e direzione umana consapevole di aver a che fare con i processi naturali di una creazione in atto ogni momento prima ancora che con prodotti agricoli industriali.

Il flusso energetico che attraversa una moderna azienda agricola a monocolture industriali da reddito è completamente diverso da quello di un sistema agro-organico sostenibile. Quest’ultimo è organizzato secondo i principi di un’autosufficienza energetica che proviene da una fonte inesauribile e primaria quale è l’energia solare, dalla fotosintesi all’humus, semplicemente conoscendo e rispettando le leggi della natura. Il primo sistema invece, forzando queste leggi, disperde enormi flussi di energia petrolchimica ed immette nell’ambiente altrettanta produzione di rifiuti e scorie tossiche per la salute e l’equilibrio degli ecosistemi naturali e agro-organici, distruggendo la vita invece di crearla, mantenerla e riprodurla.

I concimi chimici inoltre avvelenano la terra e ne uccidono la vita biologica, al pari di diserbanti, insetticidi, fungicidi. Non si è capito, si fa finta di niente o si nasconde che il problema di tante patologie vegetali e animali è dovuto alla degenerazione degli ecosistemi agrari condotti con metodi industriali, chimici e meccanizzati di sfruttamento delle terre fertili, e di sfruttamento schiavista di piante e animali, affrancati dal ruolo e dalla funzione fondamentale che hanno invece in un’azienda organica o biodinamica.

Un altro aspetto è che, dalle grandi aziende a quelle medie e piccole, la quasi maggioranza degli agricoltori è vincolata al sistema industriale e vi dipende. I fondi agricoli a ciclo chiuso, invece, erano un tempo autosufficienti, e organizzavano il loro sistema produttivo secondo esigenze di auto sostentamento e di sostentamento di una comunità-mercato locale.

Ogni fondo agricolo era concepito come un organismo formato a sua volta da altri organi che gli danno entità e forza, e facente parte di un sistema ecologico più grande. Come ogni molecola vive in sé ma è anche parte di un tessuto nel quale esiste in sinergia con le altre, il quale fa a sua volta parte di un insieme più grande; micro e macrocosmi, l’uno che contiene l’altro. Gli ecosistemi sono costituiti a loro volta da micro e macro realtà che si compenetrano e si scambiano.

Nel dover ricreare oggi un ecosistema agrario organico a fini produttivi, il ruolo dell’uomo è quello di dirigerlo sia nella progettazione che nell’organizzazione, regolandone il funzionamento quale “organismo”, con massima cura nel considerare ogni pianta ed animale quale essere vivente in sé e non una merce a codice a barre, in una relazione sostanzialmente etica nel senso compiuto della parola, con lo spirito di esserne custode e difensore devoto, come un giardiniere dell’Eden.

Pubblicato il 10 novembre 2015:

 http://www.terranuova.it/Orto-e-Giardino/Cio-che-e-vivo-culture-tour.-Coltivare-l-Eden

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La cultura agricola dall’antichita’ ad oggi

Incontro con Alberto Grosoli, agricoltore biologico

e studioso appassionato di storia dell’Agricoltura

Lunedì 19 gennaio 2015

ore 20.30

Presso Sala AUSER, via Terranova 71

Modena

organizzato da GASMO (gruppo di acquisto solidale di Modena)

§

INTRODUZIONE

“Omnium autem rerum, ex quibus aliquid adquiritur, nihil est agricultura melius, nihil uberius, nihil dulcius, nihil homine libero dignius. (Cicerone, “De officiis, I)

(Fra tutte le attività economiche la più nobile, la più produttiva, la più gradita, quella più degna di un uomo libero è l’agricoltura)

Parlando di storia dell’agricoltura, è sottinteso si tratti di agricoltura organica. L’attuale agrochimica ha la sua genesi “ufficiale” nel 1840, con la pubblicazione della teoria minerale di Justus Von Liebig e la nuova scienza agraria del progresso, di pari passo con l’affermazione del capitalismo finanziario e speculativo di banche, borse e “corporations”, si avvia a sostenere l’industrializzazione delle campagne, il libero mercato delle  merci agricole, fino ad oggi, con tutte le conseguenze a noi visibili e tangibili.

Cos’è la teoria minerale? Le piante necessitano di elementi minerali che assorbono dal terreno, e letame e rotazioni non sono sufficienti a reintegrarne l’asporto e “verrà un giorno che i campi saranno colpiti da sterilità” (pag 23) . E’ l’ interesse dell’agricoltore quindi, come quello dell’intera società, che egli ottenga dei prodotti sempre più elevati  e per un tempo illimitato. Se la composizione del suolo non conviene alla pianta egli non ha la scelta delle sue colture che in apparenza, perché non tocca a lui ma al suolo scegliersi le piante che gli convengono e qui sono i limiti dell’agricoltura organica. Se l’uomo vuole dominare la natura deve conoscerne perfettamente le leggi “naturali” o ne sarà schiavo. Quando una nuova dottrina scientifica si innalza in luogo della dominante, questa non è uno sviluppo ulteriore di quest’ultima ma la sua antitesi. La nuova teoria della nutrizione delle piante si trova in un simile rapporto con l’antica: questa ammetteva che la nutrizione agricola e quindi la crescita era di natura organica, la nuova teoria invece ammette che la nutrizione di tutte le piante, escluso i funghi, è di natura inorganica. A questa nuova teoria, essendo in opposizione completa con l’antica dottrina, le si diede il nome di teoria minerale.

Lettere chimiche (1858) pag 233: “La dottrina che ritiene necessaria la produzione del concime per mezzo delle piante da foraggio e quindi il mantenimento del bestiame per poter coltivare i campi è una dottrina erronea.” In “Introduzione alle leggi naturali dell’ agricoltura” (pag 26) precisa: “il concime di stalla, composto di parti o avanzi di piante ed animali, può per conseguenza essere rimpiazzato dalle combinazioni inorganiche alle quali esso da origine trasformandosi nel suolo. Questi principi non solo non hanno alcun rapporto colle idee emesse anteriormente, ma ne sono diametralmente opposti.”

Secondo l’idea di Liebig i concimi chimici avrebbero dovuto portare una completa rivoluzione nell’agricoltura, sarebbe stato abbandonato il letame di stalla e sarebbero state sostituite con i concimi chimici tutte le sostanze minerali asportate dai raccolti. Si sarebbe potuta coltivare sempre la stessa pianta sullo stesso campo, fosse trifoglio o frumento od altro, senza discontinuità e senza che si esaurisse la fertilità del suolo, secondo i desideri ed i bisogni dell’agricoltore. Sarebbe finita la dipendenza servile dell’agricoltore dal bestiame per la fertilità del suolo e l’allevamento animale ai fini di produrre latte e carne avrebbe potuto svilupparsi come attività parallela a quella della coltivazione, senza più alcun legame tra questa e l’allevamento stesso…

Dalle sue origini, sino a pochi decenni fa, tutta  l’agricoltura era organica: mio bisnonno era più “biologico” di me, aveva una fattoria a ciclo chiuso. Quando dissi a mio padre, che era agricoltore di alto livello, che volevo fare biologico, mi disse semplicemente che i tempi erano cambiati, che non era più possibile perché il mercato chiedeva altro, perché il progresso della chimica e della tecnica , anche nelle campagne,  era diventata la norma che tutti seguivano ed era un flusso cui non ci si poteva opporre. O fai debiti e le banche ti portano via la terra, Mi disse che io ero un conservatore, pur riconoscendo tutte le mie ragioni agronomiche. A noi giovani ribelli contro il sistema sembrava che fare biologico fosse un atto rivoluzionario, in realtà non abbiamo inventato niente di nuovo. L’agricoltura biologica cosiddetta, moderna è un settore economico del mercato capitalista, di cui deve stare alle leggi e regole, ma i suoi fondamenti e la sua storia sono antichi di migliaia di anni: è come avere scoperto l’acqua calda e spacciarla per qualcosa di nuovo.

 

Civiltà urbana e cultura naturale e rurale

Si definisce preistoria il periodo antecedente il sorgere delle civiltà urbane caratterizzate da proprie organizzazioni gerarchiche di governo e lavoro, religioni istituzionali, con tecnologie e scienze, alfabeto e scrittura, architetture civili e religiose, mura e porte, economie complesse extra-agricole o extra-naturali, sistema monetario privato o di stato. La storia inizia con le civiltà.

Ancora oggi, abbiamo civiltà urbane, tecnologiche, opulente e abbiamo, dall’altra parte,  sempre meno, culture native e società ed economie naturali e rurali, definite arretrate e sottosviluppate, che possono anche essere estremamente povere come godere di salute  e prosperità, le quali secondo certi parametri, vivrebbero  ancora nei tempi preistorici.

Gli attori economici delle ultime “civiltà” naturali sono cacciatori, raccoglitori, pescatori, artigiani che vivono in un territorio delle sue risorse naturali perenni o rinnovabili, in zone spesso impervie, oggi, che permettano loro di vivere del loro modo, cultura e tradizione;  Quelli delle “civiltà” rurali  sono gli allevatori e coltivatori, anch’essi artigiani, dediti ad economie locali di sussistenza e piccolo mercato, i quali sono storicamente il gradino più evoluto dei primi, o per qualcuno, al contrario, ne sono una forma di decadenza.

La visione ideologica dominante del nostro passato ci racconta in termini dispregiativi e di commiserazione di un’esistenza umana pre civilizzata o primitiva  fatta di privazioni, brutalità e ignoranza, cannibalismo, della barbarie del cavernicolo, come  quella dei nativi contemporanei o dell’ignoranza, sporcizia, arretratezza, grettezza del contadino . Il passato, nell’idea di progresso illimitato dell’umanità  è sinonimo di qualcosa di limitato, di obsoleto e scaduto, da superare continuamente con qualcosa di sempre nuovo, migliore, moderno, in una continua tensione verso il futuro. La nuova semente ogm ….

Questa visione è oggi rivista da riflessioni più approfondite e l’antico mito dell’età dell’oro, considerato una superstizione senza fondamento, trova quindi  una certa ragione di essere. Si può concepire la storia all’incontrario di come viene a noi insegnata e soprattutto che possano esistere altri modi di vita diversi per gli esseri umani?

Il processo di civilizzazione, ha osservato Freud, è il passaggio forzato da una vita libera e naturale ad una vita di continua e progressiva repressione.

Nella preistoria, per decine e centinaia di migliaia di anni gli esseri umani vivevano in intimo contatto con la natura madre, di caccia, pesca,  raccolta e artigianato in società egalitarie e pacifiche. Qualcuno parla di abbondanza di tempo dedicato all’ozio e agli svaghi, di saggezza istintiva, di un piacevole modo di vita. Si parla di statura più elevata, maggior robustezza dell’apparato scheletrico, pressoché sconosciute carenze alimentari, carie dentali, malattie infettive.

Comunità di cacciatori e raccoglitori continuano ad esistere sul nostro pianeta ancora oggi e il loro studio conferma questa tesi.

Con l’ addomesticamento di animali e piante ossia con l’allevamento e coltivazione, pare che le società umane siano decadute da questa età dell’oro, anche se le maggiori condizioni di miseria, sottonutrizione, e quindi maggiori malattie ed infezioni tipiche nella storia di agricoltori, contadini, rurali in genere sono in realtà dovute anche ad altri fattori, come l’ignoranza o dimenticanza di tecniche e metodi agricoli, calamità naturali e stagioni poco propizie, tasse e vessazioni da parte di un potere cittadino di aristocratici, clero o borghesi, spoliazioni belliche. In realtà, credo si tratti invece di una evoluzione di forma di “civiltà”, perché gli agricoltori sono rimasti in genere anche cacciatori, pescatori,  raccoglitori, artigiani. Si parla di gente che viveva nelle ville, dei villici, e dei rustici si diceva, o anche degli agricoltori nel senso più nobile del termine, come in auge  nella cultura classica latina e quindi umanista e rinascimentale sino al 700 e oltre.

Parliamo oggi di Civiltà Contadina, come un mondo a se stante, che ci ha preceduto: viviamo infatti nella “Civiltà Urbana” capitalista, per cui le campagne come gli esseri umani sono divenuti meri valori e disvalori di mercato finanziario speculativo. La civiltà agricola o contadina, ha migliaia di anni della sua storia oggi pressoché dimenticata nel mainstream della cultura moderna.

Già duemila anni fa nell’impero romano, ci fu chi sentì il bisogno di scrivere di agricoltura come di una antica e nobile arte che andava perduta con il progresso dell’impero e della sua globalizzazione delle merci, dell’agricoltura industriale di rapina. Primi popoli contadini furono quelli che abitavano nelle valli fertili dei fiumi, ecosistemi naturali originali di grossi erbivori; anche gli antichi romani erano un popolo di agricoltori e allevatori che viveva nella valle del Tevere, ma ce ne erano altri, come Sanniti ed Etruschi.

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Per cercare di spiegarsi le cause della crisi attuale del mondo capitalista c’è anche una tendenza d’”avanguardia ecologista” che punta il dito contro l’agricoltura, la quale avrebbe aperto la via alle grandi civiltà e le avrebbe sostenute, quasi fosse tutt’una con esse. Agricoltura che viene giudicata come responsabile della privatizzazione delle terre, del sorgere di gerarchie sociali, di sottomissione delle donne, del patriarcato maschilista, della schiavitù di animali e uomini, della distruzione degli ecosistemi  e altro ancora. Dai  villaggi rurali sarebbero sorte le città. Non è proprio esattamente così.

Qualcuno osserva infatti che gli agricoltori non vivono nelle città, che la loro cultura e forma di civiltà è ben diversa da quella urbana, quindi non furono gli agricoltori ad averle fondate,le città, quanto altri e per altri motivi e necessità.

Catal Huyuk, 10.000 anni fa, sono le rovine di una piccola città fondata da artigiani dell’ossidiana, che scambiavano la loro merce moneta con beni diversi, era crocevia di mercanti, non c’erano tracce evidenti di palazzi di governo o templi, gli abitanti integravano la loro economia con caccia, pesca e raccolta e solo un quarto circa in percentuale era rappresentato da piccolo allevamento e coltivazione di sussistenza.

Il passaggio tra caccia e raccolta, artigianato e agricoltura non fu affatto una rapida rivoluzione che si diffuse per il mondo a macchia d’olio ma un lento e progressivo processo in tempi e luoghi diversi, semplicemente in funzione di soddisfare al meglio i bisogni umani fondamentali, per necessità di sopravvivenza e benessere. Per lungo tempo l’agricoltura rimase integrata alle economie naturali originarie, non ultimo in dipendenza delle risorse proprie di un territorio.

Certo è che allevare animali o auto prodursi alimenti in un luogo evitava lunghe peregrinazioni e garantiva maggiori scorte, anche per lungo tempo.

Invece di capanne mobili di pelli, questi nostri antenati usarono pietre e legname,  o mattoni di terra cruda o cotta per costruirsi dimore stabili. Le abbellirono con dipinti, fabbricavano vasellame, utensili, oggetti vari d’uso con perizia e senso artistico.

Dell’agricoltura fecero un’arte e una scienza, rendendo e mantenendo  fertili le terre e producendo abbondanza di alimenti e materie prime. Mantennero, verso Madre Terra e la natura in genere un profondo timore religioso, rispetto e venerazione: i primi culti di cui si abbia memoria tra gli autori più antichi, ma anche dalle testimonianze archeologiche, sono i culti agrari dedicati a madre terra, diversi e precedenti da quelli propri delle civiltà urbane, dalle quali vennero successivamente in parte assorbiti e integrati.

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Vediamo come i Latini descrissero la nascita dell’agricoltura: furono gli dei che diedero agli uomini la conoscenza dell’arte di allevare bestiame e coltivare la terra quando l’Età dell’Oro di Saturno*, volse alla fine. (* scrisse Virgilio: età dell’oro, in cui “nessun colono lavorava i campi, né era lecito delimitarli tracciando confini: tutto era in comune e la terra, senza che le fosse richiesto, produceva spontaneamente e con generosità ogni cosa” (Virg. Op.cit-I, 125), * ( vedi Columella .Libro I –pag.25 – Impoverimento degli ecosistemi da cause antropiche o naturali?) . Esiodo: vivevano come gli dei; non avevano affanni,/ senza dolori e miserie; non erano afflitti nemmeno/dalla vecchiaia…/fuori da tutti i malanni, contenti vivevano in festa./Quando arrivava la morte, era come cadere nel sonno./ Tutto era bello per loro. La terra era tanto feconda/ che produceva da sé, generosa e cortese”,

Ma all’impoverimento dei generosi ecosistemi naturali selvatici fu lo stesso padre Giove a far in modo che: “ l’uso della riflessione (umana ragione e intelligenza) desse gradatamente vita alle varie arti, e facesse cercare tra i solchi l’erba del grano, e facesse scoprire nelle vene della selce la fiamma nascosta (del fuoco)” e “ Volle, lo stesso padre degli dei, che la via alla coltivazione non fosse facile e per primo impose di dissodare ad arte i campi, sensibilizzando i cuori dei mortali a tali cure, né che il suo regno intorpidisse in un ozio insopportabile”.  Fu Cerere poi, ossia madre terra stessa, sempre secondo Virgilio, la quale “per prima insegnò ai mortali come rivoltare la terra col vomere, allorché già mancavano le ghiande e i frutti della selve sacre e Dodòna negava il cibo”.  Si svilupparono allora, parimenti all’agricoltura le diverse arti “ed il lavoro assiduo vinse  le necessità che urgono in difficili circostanze”. In pratica, di necessità virtù.

L’uscita dal giardino dell’Eden, ossia dalla fase primitiva dell’economia di caccia  e raccolta dei frutti spontanei della terra, nella mitologia romana non assume i toni tragici della cacciata biblica a causa della colpa di Eva e della maledizione divina di essere condannati a coltivare la terra, con il sudore della fronte e stridor di denti, come nella visione giudaico-cristiana. Fu piuttosto  volontà stessa del padre degli dei, succeduto al genitore Saturno ed alla sua Età dell’Oro, ai fini dell’evoluzione umana nelle arti e nella conoscenza, non ultimo della sopravvivenza. Non è una maledizione, essere agricoltori, quanto piuttosto una benedizione degli dei, con i quali l’uomo antico, l’antico agricoltore, continuava a dialogare in uno stretto legame definito re-ligio dai latini con il soprannaturale, madre terra, divinità, spiriti, geni, fauni e ninfe di Natura; come il cacciatore o il pescatore adoravano la foresta e le pianure selvagge o il mare, il fiume o il lago, gli animali che cacciavano, da cui dipendeva la loro sopravvivenza.

Con il proprio lavoro in Natura, l’allevamento  animale e la coltivazione dei campi, integrati con la caccia e la pesca, l’artigianato dalle risorse presenti, l’uomo antico da nomade e seminomade transumante diviene sedentario in villaggi di capanne, sviluppa la propria economia di autosufficienza ed esprime la propria “Cultura” profondamente derivata e connessa alla Natura stessa. Una Cultura millenaria diffusa su tutto il pianeta in eterogenee forme nei luoghi e nel tempo che non solo precede le Civiltà urbane ma ne continuerà a convivere parallelamente, sino ai giorni nostri. Fu anche da grandi villaggi rurali che le città si svilupparono in seguito evolvendo le propria forme di “Civiltà”, in pianure fertili di grandi fiumi ricchi di acqua e pesci. Va detto che con l’agricoltura, caccia pesca e raccolta non scomparirono mai totalmente, ma rimasero attività complementari e stagionali integrate all’economia della coltivazione e dell’allevamento.

La dignità e la qualità della Cultura dei Campi Coltivati,  il suo essere antico ed anteriore nonché diverso dalla Civiltà dell’Urbe sono connotate da Varrone:  “Sebbene ci siano stati tramandati due modi in cui l’uomo vive, l’uno rurale e l’altro urbano, non c’è dubbio che questi siano diversi non solo nei luoghi ma anche nel tempo in cui ciascuno ebbe origine. Di molto più antica è la vita rustica, il tempo in cui cioè gli uomini vivevano coltivando la campagna e non avevano città, abitavano in capanne e non conoscevano mura e porte”.E così continua: “… gli agricoltori precedono la gente di città di un enorme numero di anni (Roma fu fondata 700 anni prima). Nessuna meraviglia, in quanto fu la divina natura che ci diede la campagna, e l’arte umana che costruì le città … e non solo la coltura dei campi è più antica, ma anche migliore”(Varrone, libro III)

“Cultura” è un termine oggi usato indifferentemente ed in senso ampio rispetto alla sua originale etimologia, sinonimo di “civiltà” o suo prodotto, da cui era invece distinto definendo modi di vivere ed usi, conoscenze, arti ed espressioni proprie del mondo rurale. Civiltà muove da “civitas”, la città, il centro di potere gerarchico politico, militare e religioso, luogo cinto di mura difensive ed ornato di splendide architetture, con strade e piazze, arene e templi. La vita cittadina è diversa da quella di campagna, diverse le esigenze ed il modo di soddisfarle, una dimensione aliena fin dalle sue origini alla vita in campagna. La civiltà urbana esprime proprie arti e scienze, musica, danza e letteratura, nonché proprie religioni con propri dei più verosimilmente adatti al contesto urbano. Varrone, nella sua introduzione alla propria opera, non invoca gli dei della città, le cui immagini dorate sono nel foro, mai i dodici dei, sei maschi e sei femmine, che sono i massimi patroni degli agricoltori:  neque tamen eos urbanos, quorum imagines ad forum auratae stant, sex mares et feminae totidem, sed illos XII deos, qui maxime agricolarum duces sunt. (Varrone I, 1)  Questi dei rustici sono Giove e Tellus, padre Cielo e madre Terra, il Sole e la Luna; Cerere e Bacco, dei degli alimenti solidi e liquidi; Minerva dea degli ulivi delle greggi, della tessitura e Venere degli orti e giardini; Ruggine e Flora, l’uno le malattie fungine dei raccolti, l’altra dea della vegetazione; Linfa e Buon Evento, la prima l’acqua che vivifica la terra (soluzione circolante), il secondo, qui maschile, la dea Fortuna o Abbondanza, quella che regge nell’iconografia antica la mitica Cornucopia, il corno dell’abbondanza, corno bovino da cui scaturisce ogni frutto della terra.

È un rispetto profondo, istintivo e spirituale, quello che lega l’uomo vero agricoltore alla Terra e alle energie vitali, alla forze soprannaturali;  è alle radici del termine stesso Agricoltura, il quale è derivato direttamente a noi dal latino “Agri Cultura”. Come uno scrigno, questa parola racchiude un proprio originario ambivalente e molteplice significato. “Cultura” deriva dal verbo “colere” il cui participio è “cultum”,  la coltivazione della terra  era una con il culto per essa“Non senza ragione (gli antichi romani)  chiamavano la terra sia “madre” che “Cerere” e coloro che la coltivavano ed onoravano erano ritenuti uomini che conducevano una vita pia ed utile, ultimi sopravvissuti della stirpe del re Saturno (Età dell’Oro). Ed è per questo che i riti sacri in onore di Cerere, prima di tutti gli altri furono detti iniziatici” Così scriveva Marco Terenzio Varrone nel I secolo avanti Cristo, nel suo “De Re Rustica”. Cerere latina è la dea greca Demetra, “tà meter”, ossia la madre, Madre Terra.

“Colto” significa sia coltivato, ornato, abbellito, di un campo, che educato, erudito e saggio riferito ad un uomo. “Cultura” è pertanto la conoscenza, sapienza e anche saggezza appresa dal libro aperto della Natura stessa vivendone a contatto diretto, dalla osservazione delle sue strutture, fenomeni, dinamiche e cicli, con un atteggiamento di umiltà, rispetto, riconoscenza  e devozione.

_____________________________________________________________________________________________Humus, humanus, humiltas condividono la medesima radice.

Colo: 1)coltivare-aver cura di-proteggere -incivilire- adornare 2) abitare-soggiornare-3) venerare – onorare –trattare con riguardo-tenere in considerazione-celebrare –osservare riferito a culti e riti

Cultor : coltivatore –colono –agricoltore – cultore (amante)- cultore degli dei –veneratore –adoratore.

Cultura : coltivazione –agricoltura –coltivare la terra – educazione – filosofia – ossequio –rispettosa cura –culto religioso – venerazione

Cultus (participio di colo): coltivato – lavorato  – adorno- elegante – raffinato – colto- educato – fine

Cultus: coltivazione, cultura, cura, educazione,-culto,adorazione, venerazione, ossequio- tenore di vita, costume, civiltà, cultura, raffinatezza, eleganza, piaceri raffinati, lusso, ornamento.

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Lucio Giunio Columella, altro autore del secolo successivo a Varrone, definisce il rapporto dell’uomo con la Natura madre con queste semplici parole: “… la Natura, dotata di perenne fertilità  dal creatore dell’universo, … cui fu data una divina e perpetua giovinezza, … è chiamata  madre comune di tutte le cose – la quale ha sempre generato tutte le cose ed è destinata a generarle continuamente …”

Così Virgilio celebra nelle sue Georgiche la vita dei campi e il legame (re-ligio) con le forze della Natura allora divinizzate: “Cosa rende ridente la campagna, questo canterò, Mecenate, la stagione in cui si dissoda la terra, si legano agli olmi le viti; come si governa il bestiame,  si allevano le greggi  e l’esperienza che esigono le piccole api. Voi, luci splendide dell’universo che guidate nel cielo il corso dell’anno;  e Libero e Cerere nutrice, se in grazia vostra sulla terra  si mutò in spiga fertile la ghianda caonia e all’acqua d’Achelòo si mescolò il vino; e voi, Fauni, venite, dei che aiutate chi vive nei campi, venite insieme, Fauni e Driadi fanciulle: io i vostri doni canto.”

Annota Von Liebig, citando Schlosser, storico tedesco e parlando dell’antica agricoltura italica preromana:

La religione del paese era intimamente legata coll’agricoltura e coll’allevamento del bestiame, e le feste nazionali erano feste agricole. Dei sacerdoti speciali ( Fratres Arvales) formavano una confraternita agricola e non se ne occupavano solamente sotto il punto di vista del culto, ma ancora sotto il punto di vista scientifico. Tutte le cerimonie religiose e tutte le feste nazionali aveano per iscopo di mantenere l’agricoltura del paese sotto la sorveglianza dell’autorità, e di stimolare, col mezzo dei doveri religiosi, lo zelo del coltivatore. Presso i Sanniti le foreste, a causa dell’influenza ch’esse esercitano sul clima, erano poste sotto la sorveglianza dell’autorità pubblica “

I  “Fratres Arvales” *, anche secondo una remotissima tradizione romana erano un antico collegio sacerdotale formato da dodici eletti a vita. Rappresentavano i dodici figli di Acca Larentia, e i mitografi riconoscevano in loro una raffigurazione dei dodici mesi dell’anno (Plin., NatHist., XVIII, 6; Gell., VII, 7,8). Si dedicavano al culto della terra che nutre, invocandola sotto il nome di dea Dia, e il loro anno liturgico, che era anche l’anno di carica dei dignitarî del collegio, andava da una festa solstiziale dei raccolti all’altra (ex Saturnalibus primis ad Saturnalia secunda – 17 dicembre).

(inno dei Frates Arvales , 218 A.C.in latino arcaico, non completamente traducibile)

(* Letimologia del termine deriva da arvum o aruum, “terra lavorata” (la radice ar è la medesima dei termini “arare” ed “aratro”).

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Le origini degli Arvali si ricollegano con quella forma della primitiva religione che si riferisce alla coltura dei campi (arva), favorendola con cerimonie sacrificali  che  dedicavano alla  dea Dia, divinità arcaica romana, più tardi identificata con Cerere, e di Marmar o Mavors, identificato più tardi con Marte, i quali proteggevano la terra e le messi.

L’insegna propria dei membri del sodalizio era la corona di spighe con bianche bende. Nella seconda metà del mese di maggio, poco prima dello spuntare delle messi, compivano un’antichissima cerimonia di purificazione dei campi che durava tre giorni. Questa cerimonia pubblica, detta Ambarvalia, consisteva nel percorrere a passo di danza il perimetro degli arva, le terre coltivate della città, al fine di renderli immuni sia da nemici esterni sia da potenze malevole che provocano malattie.

Si autodefinivano “figli della madre terra“, e nel loro ufficio, oltre che alla dea Cerere, essi compivano sacrifici anche per il dio Bacco, per ingraziarselo nella speranza di una buona produzione delle viti. I sacrifici si compivano principalmente con l’offerta dei prodotti della terra e animali che venivano immolati o sparsi al vento nei campi o imbevendo la terra dei loro succhi.

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Quando Roma assurse a grande potenza, i Fratres Arvales e le loro cerimonie si svolgevano all’interno della città e in un bosco sacro adiacente, arrivando a perdere pertanto il loro spirito originario di culti agrari propri di una civiltà rurale per diventare pomposi  e spettacolari quanto vuoti rituali urbani con cui si confusero sino allo loro soppressione da parte dei cristiani nel IV secolo.

Agli inizi della loro storia i Latini erano un popolo di cacciatori, pescatori, raccoglitori, allevatori, coltivatori e abili artigiani. Erano una delle diverse etnie che popolavano l’Italia. Italia che era, a detta degli antichi, un grande giardino coltivato (vedi sopra Liebig).

“Prima ancora che il popolo romano facesse la sua apparizione nella storia, molto tempo avanti la fondazione di Roma, l’Italia era di già il paese meglio coltivato dell’Europa. Ce ne fanno fede gli avanzi delle colossali costruzioni che si ammirano ancora oggidì nell’antico paese dei Latini, e tutti i documenti ci assicurano che l’antico Lazio si trovava in uno stato estremamente florido. Puossi pretendere con certezza ( dice Schlosser nella sua Storia Universale, t. III, p.140) che questo paese non fu in nessuna epoca più popolato e non offrì giammai un aspetto più elevato di prosperità che in questi secoli anteriori al dominio della Storia. Nemmeno posteriormente quando il potente popolo romano ebbe accumulato nel Lazio i tesori delle contrade più ricche, il suo stato non era minimamente paragonabile a quello dei tempi primitivi. Il Lazio all’epoca della grandezza romana, non offriva che la ricchezza di un numero ristretto di famiglie, mentre che anteriormente l’intiero paese e ciascuno dei suoi abitanti gioivano d’un grande benessere.

Il territorio delle paludi Pontine che oggi nutre appena un qualche raro capo di bestiame e spande da lungi i suoi miasmi, era allora occupato da ventitré villaggi popolosi. L’attività dei Latini avea saputo convertire queste maremme, come gli Etruschi, pei primi, seppero rendere abitabili le paludi della Lombardia, col mezzo di canali e di dighe. La quantità dei villaggi più o meno importanti, ricordati negli scritti degli storici romani, attesta che una popolazione numerosissima viveva sopra una superficie poco estesa, e che per nutrirla, il suolo doveva essere estremamente fertile e coltivato come un giardino (Schlosser).

L’agricoltura doveva essere giunta ad un ugual grado di prosperità sul territorio dei popoli Sanniti, che abitavano allora tutta la catena elevata degli Apennini dal paese degli Etruschi fino all’estremità sud dell’Italia. Tutto il territorio del Monte Matese, che durante una parte dell’anno è ricoperto di neve, e che rimase incolto dopo i tempi dei Sanniti, era stato in quest’epoca trasformato col lavoro assiduo di un popolo felice e operoso in terre arative e in praterie ed era straordinariamente popolato. In tutto il Sannio, paese essenzialmente montuoso, bel poche terre rimanevano incolte.”

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Sappiamo che agli inizi, per volontà del mitico Romolo dice la leggenda, a ciascun nato di stirpe latina veniva assegnata di diritto una porzione di terra, due iugeri, circa 5000 metri quadrati. Questa assegnazione a vita poteva essere lasciata in eredità, da cui il nome Heredia. Cento Heredia formavano una Centuria, ogni Heredia era diviso a metà in due iugeri. Questa era  ed è ancora una superficie minima sufficiente ad un individuo per sopravvivere.

“Arava Cincinnato la sua piccola villa, la quale non trapassava il termine di quattro iugeri … Notasi l’onore che si faceva in Roma alla povertà, e come ad un uomo buono e valente, quale era Cincinnato quattro iugeri di terra bastavano a nutrirlo ..”( Macchiavelli. I Discorsi)

Riprendiamo a riguardo la frase di Varrone: “coloro che la coltivavano ed onoravano, la terra, erano ritenuti uomini che conducevano una vita pia ed utile”.  Ci riporta Catone: “ quando i nostri antenati volevano lodare un galantuomo, lo chiamavano buon agricoltore e buon colono, e con siffatti nomi credevano essi di onorare ampiamente colui che lodar volevano”.

La morale “classica” dei latini derivava loro dalle tradizioni agricole degli antenati, dai  valori religiosi di umiltà, austerità di costumi, “pietàs“, onestà, senso civico, rispetto delle leggi della comunità, dignità e senso dell’onore dei “maiores”. La vita agricola era considerata sana sia dal punto di vista fisico che etico. Fare agricoltura era un’attività per uomini liberi e molti autori latini declamano la superiorità della vita rustica rispetto a quella del mercante o peggio di tutte, dell’usuraio. L’opulenza e i fasti di Roma imperiale offuscarono questi concetti e valori che nella pratica decaddero in vizi e corruzione, così come l’antica arte e scienza dell’agricoltura venne dimenticata. (Columella. Introduzione, pag. 13)

[*HEREDIA CENTUM CENTURIA DICTA.

(Nella) colonia di Terracina (329 a. C.), sappiamo che ogni centuria fu divisa tra 100 coloni. E questa cifra è attribuita dagli eruditi romani alla leggendaria assegnazione di Romolo ai primi cittadini romani; la superficie di ogni singola proprietà constava di due iugeri, ed era detta heredium. Benché l’esiguità dell’assegnazione ponga problemi che sono stati anche recentemente oggetto di discussione, la cifra dei 100 heredia offre l’unica spiegazione probabile del nome di centuria (Festus, De sign. verb., 47 L: Centuriatus ager in ducena iugera definitus, quia Romulus centenis civibus ducena iugera tribuit).]

“In origine il giardino romano aveva una funzione produttiva, era cioè, una porzione di terra di pertinenza della casa, nella quale si coltivavano piante alimentari ad uso dei proprietari. La proprietà di questa porzione di terreno veniva trasmessa tramite eredità insieme alla casa stessa, era cioè un bene inalienabile della casa. Da qui l’antico nome di heredium modificatosi, col tempo, in hortus. Il giardino primitivo aveva anche un significato religioso in quanto spessissimo legato ai Lari, a Flora, a Pomona, talvolta a Priapo il cui simbolo fallico serviva per evitare i malefici al raccolto, e, a detta di Plauto, anche a Venere definita dea protettrice del giardino. Con l’industrializzazione colturale della campagna romana, che si avviò dalla seconda guerra punica, il terreno in prossimità della casa finì col restare una zona a colture promiscue che serviva da seconda dispensa per la famiglia, forniva generi alimentari ai coloni ma nello stesso tempo riforniva, di ortaggi e frutta, la città. Con l’espansione urbana e demografica di Roma, le capacità di autoapprovvigionamento dei residenti si ridussero fortemente in quanto staccati dalla produzione agricola. Da ciò derivò una crescente domanda di ortaggi e frutta che determinò una notevole espansione dell’orticoltura. L’hortus,infatti, da pertinenza della casa diventò un vero e proprio campo, di notevole estensione. E questo pose in crisi il concetto di giardino produttivo, ormai privato di una precisa posizione all’interno dell’azienda agraria. Con l’ellenizzazione della cultura romana, il giardino, cioè la porzione di terreno intorno la casa, riprese una identità propria ed unica attraverso un graduale passaggio dalla funzione produttiva alla funzione ornamentale. (Eraldo Antonini)

La terra agricola era il bene più prezioso di una antica comunità stato di agricoltori. Anche il suo bestiame, al punto che chi uccidesse senza motivo un bue, dicono Varrone e Columella, parlando di tempi già a loro antichi,  era passibile di pena di morte da parte dell’autorità. Le civiltà agricole della storia, quelle della mezzaluna fertile, avevano assai verosimilmente le stesse leggi: il bovino era sacro e inviolabile, nell’antico Egitto come ancora oggi è retaggio nell’ India vedica, il bovino ospita lo spirito della divinità, è al centro di un culto a lui dedicato.

Il bue Api egizio era un toro, tra i migliori selezionati nella valle del Nilo ed era allevato in un santuario, a  vita e con tutti gli onori dovuti ad una divinità.

Il tempio stalla e la stalla tempio.

Nell’antico Egitto, è esistita, per circa 29 dinastie, la tradizione millenaria del culto del toro Apis. Secondo i principi della loro religione, l’anima del dio Osiride dimorava nella figura bovina. Hathor, è la dea egizia primigenia, è madre terra-vacca, la cui religione precede quella di Osiride, il padre celeste, del quale diventa sorella-compagna Iside con il figlio, in cui Hator si trasforma. Hator ha grandi corna bovine che contengono il disco solare o lunare.

Le similitudini con la cultura vedica sono evidenti: le dea madre indiana nasce dal latte cosmico, dalla via lattea. Si incarna nel bovino femmina, come il dio padre egizio nel toro. Hathor è la mucca sacra le cui gambe rappresentano i quattro assi del mondo, i punti cardinali celesti e terrestri.

Quando il primo bue Apis morì*, il supremo spirito divino trasmigrò in un altro bue destinato  a succedergli gli egizi restarono in lutto per 70 giorni, tornando a gioire solo quando fu individuato il suo successore, rilevato da precisi colori del manto” ; in seguito il successore che veniva scelto fin da piccolo tra i migliori di quelli che erano allevati e pascolavano nelle praterie del Nilo. Qui veniva quindi ben pasciuto per 40 giorni e portato in seguito con tutti gli onori, tra ali festanti di popolo rurale, nel tempio di Osiride a Menfi, dove aveva un proprio recinto sacro.

Mantenuto a vita, aveva  il proprio harem di fattrici scelte, la cui genealogia era trattata con altrettanti onori. Alla sua morte veniva mummificato e posto nelle cripte del tempio, riposto in grandi camere sarcofago, per l’adorazione popolare. Le donne erano ammesse nel recinto del toro sacro per compiere (osceni) rituali di propiziazione della fertilità. Al toro Api erano attribuite facoltà taumaturgiche, al tempio si recavano anche ammalati e storpi, che speravano di ottenere guarigioni miracolose.

 “Alla sua morte l’Apis ebbe una sepoltura individuale fino alla XIX dinastia. Fu Ramses II a far costruire nei pressi di Menfi un mausoleo comune, scoperto da Mariette nel 1850-1851. Si trattava di un tempio dedicato a Serapide (da Osiride-Apis), formato da un complesso di sotterranei simili al labirinto cretese, che conteneva «decine e decine di Apis mummificati e collocati in blocchi di granito e di basalto di circa 70 tonnellate ciascuno»”

Il culto di Serapide, per l’uomo moderno è solo una lontana nota storica di folclore religioso di civiltà passate. Eppure fu un  culto agrario fondamentale per millenni, seguito da generazioni di agricoltori, coltivatori e artigiani di grandi civiltà agricole, come quella egizia, in cui l’unità di moneta fu il grano. Civiltà che ebbero grandi città stato e complessi templari, come perle splendenti tra campi perfettamente coltivati e produttivi, fattorie e villaggi rurali. La storia dell’agricoltura ebbe inizio lungo le fertili valli dei grandi fiumi dal Nilo all’Indo.

L’agricoltura era una scienza di cui si occupava una casta sacerdotale di eruditi (astronomi, matematici, geometri)  che aveva il compito anche di insegnare  i principi della pratica di allevamento e coltivazione, di educare alla scienza ed all’arte agricola, fondamento primo della sopravvivenza e benessere di comunità e stato . Nell’antica Italia agricola i sacerdoti erano gli Arvali.

È il bovino che regge l’intero impianto dell’agricoltura. È il suo letame il principio di fertilità naturale e perenne del terreno. “Laetamen” ciò che rende la terra fertile, feconda, in latino: lieta. Lietezza è il sentimento dell’agricoltore di fronte a campi ben coltivati e produttivi di raccolti, lietezza è sinonimo di benessere perché i raccolti sono abbondanti, e la miseria è sconfitta, e si può celebrare, con danze, musica, si possono ornare le dimore con pitture, decorare i vasellami, ricamare i tessuti, lietezza è mesta gioia di vivere ed essere vivi.

Il culto ha una ragione d’essere che è scientifica: il bovino è attore primario nella catena alimentare delle valli fluviali e dei loro pascoli e foreste. È nel pascolo che si forma l’humus fertile sul quale crescono cereali, legumi, ortaggi, erbe e frutta.

Questo principio scientifico fondamentale fu fissato come una sorta di dogma religioso; in questo caso è evidente come la religione sia un mezzo non solo di controllo ma anche di educazione delle masse popolari contadine, non ultimo attraverso culti e rituali simbolici che servono a mantenere e tramandare una tradizione di conoscenze fondamentali per il genere umano, la sopravvivenza e il benessere comune. Non esistevano ancora schiavi nei tempi di queste civiltà.

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L’Arte e la Scienza di coltivare la Terra

“Leggendo le Opere degli antichi un agronomo si compiacerà assaissimo di vedere quali fossero le pratiche agrarie osservate nei tempi i più remoti, e di trovare che le più essenziali all’Arte erano pure le stesse di quelle di oggi; ed ancora le migliori. (Filippo Re (1763-1817) – Discorso d’Agricoltura .pag 95)”

 

Così scrisse Filippo Re, agronomo e scienziato del Ducato Estense, considerato uno dei massimi studiosi di agricoltura del suo tempo.

Ancora oggi, a chi sia veramente appassionato di agricoltura organica, può risultare non solo interessante quanto utile  il riscoprirne le origini nei testi degli agronomi antichi, di cui i primi a noi pervenuti sono di oltre 2000 anni fa. Queste prime opere in particolare furono riprese tra il ‘300 e l’800, dopo un lungo oblio, dagli agronomi successivi i quali non solo ne accolsero l’eredità ma ne fecero il fondamento di una rinascita del sapere agricolo,  pur visto dalla parte del grande ma anche piccolo possidente che si avvale di fattori, manodopera mezzadrile e bracciantato.

Il signore prende ad occuparsi direttamente di agricoltura, quale arte nobile che si addice all’uomo libero, all’aristocratico come al plebeo e si assisterà, dopo il ‘500, all’organizzazione fondiaria di tenute e poderi secondo il modello di villa rustica romana. Nelle campagne, terminata l’epoca dei castelli e borghi fortificati, si costruiranno eleganti dimore signorili con parco e giardino, ma anche abitazioni per i contadini, stalle, fienili, granai, cantine, ghiacciaie, cascine, opifici; i terreni verranno divisi in piccoli appezzamenti all’incirca corrispondenti allo iugero latino (biolche, tornature, acri) arabili ciascuno in un giorno con un paio di buoi, verranno reintrodotte le rotazioni e i sovesci. Coltivi affiancati da piantate di olmi e viti, di frutta o olivi, circondati da siepi vive, con prati stabili da pascolo e foraggio, essenze forestali per legname da lavoro o da ardere, fattorie con ogni genere possibile di bestiame, piccioni, pollame e selvaggina, peschiere. Fondi agricoli autosufficienti sia dal punto di vista energetico rinnovabile che della sopravvivenza, a ciclo chiuso, veri e propri organismi dotati di vita propria, in cui la proporzione tra coltivi, animali ed umani cercava il suo equilibrio ottimale di sistema concepito per durare nel tempo e rinnovarsi perennemente. Essendo il fine la produzione di alimenti e materie prime per il consumo diretto di contadini e padroni ed essendo ai tempi oltre l’ottanta per cento della popolazione dedita a questa economia rurale di auto sostentamento, solo una parte delle produzioni era destinata ai mercati urbani locali e da esportazione, per ricavarne comunque entrate in denaro: nel lavoro agricolo si produce sempre di più del necessario ai bisogni delle famiglie contadine e padronali e questo surplus creava la ricchezza e il benessere. L’artigianato rurale, domestico o di piccoli laboratori creava prodotti unici per fattura e qualità di uso e consumo. È chiaro come l’idea di profitto speculativo, di sfruttamento delle campagne con monocolture per il solo profitto speculativo rappresentasse una pratica che alterava l’equilibrio di questo modello economico di cui non era il fine principale. Al contrario si sapeva, dalle testimonianze di Varrone e Columella in particolare, come i metodi di sfruttamento intensivo delle terre creassero immediate ricchezze ai proprietari delle medesime, ma anche progressivo ed inesorabile impoverimento della fertilità dei suoli; si sapeva come il produrre grandi quantità industriali  cedute a basso prezzo fosse dannoso per le economie agricole locali, creando povertà sia tra i contadini asserviti che piccoli e medi proprietari e non potesse non risultare pertanto che nell’abbandono all’incolto e nell’esodo verso l’inurbamento, come era accaduto nell’età di Roma imperiale.

Dopo il ‘7oo, in particolare nella prima metà del secolo successivo, il “noveau regime” liberal borghese, ostile all’ordine agrario “ancien regime”, declasserà la concezione degli  agronomi precedenti sostenendo una nuova agricoltura estensiva ed industriale  volta allo sfruttamento delle terre e del bestiame ed aprirà la via al profitto capitalista in senso moderno, un’idea fino ad allora legata al commercio ed all’usura, in luogo della tradizionale rendita fondiaria.

Justus Von Liebig, considerato il padre dell’agricoltura chimica moderna di cui fornì le basi scientifiche con la sua Teoria Minerale della nutrizione dei vegetali, nella sua opera “Le Leggi Naturali dell’Agricoltura” afferma che il passaggio storico tra la nuova scienza agricola del progresso e quella antica, organica, risale alla data delle sue scoperte, il 1840. In questo saggio, Liebig  parla della vittoria dell’uomo sulla natura, della liberazione degli agricoltori dalla servitù al bestiame e al letame, concime superato da quelli minerali e chimici, che avrebbero permesso produzioni illimitate di alimenti sugli stessi terreni, aprendo quindi la via allo sfruttamento industriale delle campagne e all’economia del libero mercato capitalista per le merci agricole.

Allo stesso tempo, Liebig considera sorpassati ed obsoleti i principi dell’agricoltura organica tradizionale, le cui scuole, come quella tedesca di Moeglin, dell’agronomo Albrecht Thaer o quella Inglese di Lawson e le altre europee,  a sua opinione si basavano su superstizioni come l’attribuire importanza ad un terriccio nerastro detto humus, al bestiame e al letame, alle rotazioni, al credere che una forza vitale agisse su piante ed animali, grazie all’applicazione dei metodi antichi da parte degli agricoltori. Questi ultimi, definiti “pratici”, sempre secondo Liebig, opponevano la presunzione delle loro errate conoscenze derivate dalla loro esperienza diretta e tradizione ai nuovi principi scientifici e,  da  ignoranti quali erano, non accettavano consigli da chi, come gli scienziati moderni, che mai avevano coltivato la terra, voleva insegnar loro dall’alto delle cattedre accademiche. Nell’opera si riporta questa polemica tra agricoltori e scienziati, che non poco amareggiò Liebig, il quale credeva di agire per il bene dell’umanità. Ma già in un altro successivo capitolo, il medesimo si interroga in coscienza sulla sua responsabilità, pur in buona fede, di aver osato aggiungere un anello che credeva mancante alla catena della creazione divina, in sé già perfetta, avanzando pertanto dubbi sulla sua scoperta ed applicazione in natura.

La penetrazione dell’agrochimica nelle campagne non fu però immediata, ancora oltre un secolo dopo la maggioranza delle campagne continuava nei suoi metodi tradizionali organici, arando ancora con i buoi, in piccoli poderi a prevalenza di lavoro manuale.  Se  la meccanizzazione, pur artigianale era già diffusa e in progresso, fu la motorizzazione con trattori e altri mezzi che dal dopoguerra veicolò l’affermarsi dei concimi, diserbanti, antiparassitari chimici in misura sempre più massiccia  dagli anni ’60 .

Conoscenze, metodi e strumenti, modi di vita e cultura rurale pare siano, nel corso della Storia millenaria, come sospesi in un  tempo senza età ed in luoghi senza nome, nonostante un lento progresso abbia indotto  cambiamenti e migliorie anche notevoli tra la gente delle campagne, fino a quando, recentemente, la antica arte e scienza dell’Agricoltura organica si è rapidamente modificata, “modernizzandosi” e determinando, parallelamente,  l’inesorabile tramonto della propria cosiddetta “Civiltà Contadina”.

In controtendenza ed in alternativa abbiamo oggi opposto la “nuova” agricoltura organica e “sostenibile”, biodinamica e biologica, le quali, nuovi settori produttivi del medesimo mercato e sistema economico, stentano però, salvo eccezioni, a produrre anche l’orgoglio, oltre che della qualità degli alimenti, di una propria definita cultura. Il modo vita nelle campagne, da parte dei pochi agricoltori che sopravvivono (circa un 3% scarso della popolazione compresi i biologici)  è infatti perlopiù omologato a quello urbano, di cui ha assunto passivamente, in gran parte, la cultura. La “nuova”agricoltura organica,  ben lungi comunque dall’essere un’eccentrica novità non è però altro che la vera Agricoltura a noi derivata da una antica tradizione basata sulla conoscenza della Natura, le cui leggi perenni non mutano  e sul rispetto di Madre Terra : i nostri antenati contadini senz’altro erano più “biologici” di quanto non lo siamo noi adesso.

La cultura dei campi coltivati

Un rispetto profondo, istintivo e spirituale, quello che lega l’uomo vero agricoltore alla Terra,  è alle radici del termine stesso Agricoltura, il quale è derivato direttamente a noi dal latino “Agri Cultura”. Come uno scrigno, questa parola racchiude il proprio originario ambivalente significato. “Cultura” deriva dal verbo “colere” il cui participio è “cultus”,  la coltivazione della terra  era una con il culto per essa : “Non senza ragione (gli antichi romani)  chiamavano la terra sia “madre” che “Cerere” e coloro che la coltivavano ed onoravano erano ritenuti uomini che conducevano una vita pia ed utile, ultimi sopravvissuti della stirpe del re Saturno (Età dell’Oro). Ed è per questo che i riti sacri in onore di Cerere, prima di tutti gli altri furono detti iniziatici” Così scriveva Marco Terenzio Varrone nel I secolo avanti Cristo, nel suo “De Re Rustica”. Cerere latina è la dea greca Demetra, “tà metre”, ossia la madre, Madre Terra. È a questa divinità che nell’antica Grecia vennero dedicati i primi culti religiosi formali di cui si abbia memoria, noti come Misteri Eleusini, nel santuario di Eleusi, ad essa intitolato.

“Colto” significa sia coltivato, di un campo, che educato, erudito e saggio riferito ad un uomo. “Cultura” è pertanto la conoscenza, sapienza e saggezza appresa dal libro aperto della Natura stessa vivendone a contatto diretto, dalla osservazione delle sue strutture, fenomeni, dinamiche e cicli, con un atteggiamento di umiltà, rispetto, riconoscenza  e devozione.

Lucio Giunio Columella, altro autore del secolo successivo a Varrone, definisce il rapporto dell’uomo con la Natura madre con queste semplici parole: “… la Natura, dotata di perenne fertilità  dal creatore dell’universo, … cui fu data una divina e perpetua giovinezza, … è chiamata  madre comune di tutte le cose – la quale ha sempre generato tutte le cose ed è destinata a generarle continuamente …”

Così Virgilio celebra nelle sue Georgiche la vita dei campi e il legame (re-ligio) con le forze della Natura allora divinizzate: “Cosa rende ridente la campagna, questo canterò, Mecenate, la stagione in cui si dissoda la terra, si legano agli olmi le viti; come si governa il bestiame,  si allevano le greggi  e l’esperienza che esigono le piccole api. Voi, luci splendide dell’universo che guidate nel cielo il corso dell’anno;  e Libero e Cerere nutrice, se in grazia vostra sulla terra  si mutò in spiga fertile la ghianda caonia e all’acqua d’Achelòo si mescolò il vino; e voi, Fauni, venite, dei che aiutate chi vive nei campi, venite insieme, Fauni e Driadi fanciulle: io i vostri doni canto.”

Dei agresti, fauni e ninfe, nell’immaginario religioso degli antichi pastori agricoltori italici, sovrastavano alla Natura e alla vita stessa degli umani cui diedero la conoscenza dell’arte di allevare bestiame e coltivare la terra quando l’Età dell’Oro di Saturno, in cui “nessun colono lavorava i campi, né era lecito delimitarli tracciando confini: tutto era in comune e la terra, senza che le fosse richiesto, produceva spontaneamente e con generosità ogni cosa” (Virg. Op.cit-I, 125), volse alla fine.

Fu quindi lo stesso padre Giove a far in modo che: “ l’uso della riflessione (umana) desse gradatamente vita alle varie arti, e facesse cercare tra i solchi l’erba del grano, e facesse scoprire nelle vene della selce la fiamma nascosta (del fuoco)” e “ Volle, lo stesso padre degli dei, che la via alla coltivazione non fosse facile e per primo impose di dissodare ad arte i campi, sensibilizzando i cuori dei mortali a tali cure, né che il suo regno intorpidisse in un ozio insopportabile”.  Fu Cerere poi, ossia madre terra stessa, sempre secondo Virgilio, la quale “per prima insegnò ai mortali come rivoltare la terra col vomere, allorché già mancavano le ghiande e i frutti della selve sacre e Dodòna negava il cibo”.  Si svilupparono allora, parimenti all’agricoltura le diverse arti “ed il lavoro assiduo vinse  le necessità che urgono in difficili circostanze”.  

L’uscita dal giardino dell’Eden, ossia dalla fase primitiva dell’economia venatoria e di raccolta dei frutti spontanei della terra, nella mitologia romana non assume i toni tragici della cacciata biblica a causa della colpa di Eva e della maledizione divina di essere condannati a coltivare la terra, con il sudore della fronte. Fu piuttosto  volontà stessa del padre degli dei, succeduto al genitore Saturno ed alla sua Età dell’Oro, ai fini dell’evoluzione delle arti e della conoscenza umana, non ultimo della sopravvivenza.

Con il proprio lavoro in Natura, l’allevamento  animale e la coltivazione dei campi, integrati con la caccia e la pesca, l’artigianato dalle risorse presenti, l’uomo antico da nomade diviene sedentario in villaggi di capanne, sviluppa la propria economia di autosufficienza ed esprime la propria “Cultura” profondamente derivata e connessa alla Natura stessa. Una Cultura millenaria diffusa su tutto il pianeta in eterogenee forme nei luoghi e nel tempo che non solo precede la Civiltà urbana ma ne continuerà a convivere parallelamente, sino ai giorni nostri. Fu dai grandi villaggi rurali che le città si svilupparono in seguito evolvendo le propria forme di “Civiltà”. 

La dignità e la qualità della Cultura dei Campi Coltivati,  il suo essere antico ed anteriore nonché diverso dalla Civiltà dell’Urbe sono connotate da Varrone medesimo:  “Sebbene ci siano stati tramandati due modi in cui l’uomo vive, l’uno rurale e l’altro urbano, non c’è dubbio che questi siano diversi non solo nei luoghi ma anche nel tempo in cui ciascuno ebbe origine. Di molto più antica è la vita rustica, il tempo in cui cioè gli uomini vivevano coltivando la campagna e non avevano città, abitavano in capanne e non conoscevano mura e porte”.E così continua: “… gli agricoltori precedono la gente di città di un enorme numero di anni (Roma fu fondata 700 anni prima). Nessuna meraviglia, in quanto fu la divina natura che ci diede la campagna, e l’arte umana che costruì le città … e non solo la coltura dei campi è più antica, ma anche migliore”(Varrone, libro III)

“Cultura” è un termine oggi usato indifferentemente ed in senso ampio rispetto alla sua originale etimologia, quasi sinonimo di “civiltà” da cui era invece distinto definendo modi di vivere ed usi, conoscenze, arti ed espressioni proprie del mondo rurale. Civiltà muove da “civitas”, la città, il centro di potere gerarchico politico, militare e religioso, luogo cinto di mura difensive ed ornato di splendide architetture, con strade e piazze, arene e templi. La vita cittadina è diversa da quella di campagna, diverse le esigenze ed il modo di soddisfarle, una dimensione aliena fin dalle sue origini alla vita in campagna. La civiltà urbana esprime proprie arti e scienze, musica, danza e letteratura, nonché proprie religioni con propri dei più verosimilmente adatti al contesto urbano. Varrone, nella sua introduzione alla propria opera, non invoca gli dei della città, le cui immagini dorate sono nel foro, mai i dodici dei, sei maschi e sei femmine, che sono i massimi patroni degli agricoltori:  neque tamen eos urbanos, quorum imagines ad forum auratae stant, sex mares et feminae totidem, sed illos XII deos, qui maxime agricolarum duces sunt. (Varrone I, 1)  Questi dei rustici sono Giove e Tellus, padre Cielo e madre Terra, il Sole e la Luna; Cerere e Bacco, dei degli alimenti solidi e liquidi; Minerva dea degli ulivi e Venere degli orti e giardini; Ruggine e Flora, l’uno le malattie fungine dei raccolti, l’altra dea della vegetazione; Linfa e Buon Evento, la prima l’acqua che vivifica la terra, il secondo, qui maschile, la dea Fortuna o Abbondanza, quella che regge nell’iconografia antica la mitica Cornucopia, il corno dell’abbondanza, corno bovino da cui scaturisce ogni frutto della terra.

Luogo d’incanti e lusinghe, la città è anche teatro di feroci contese politiche e di spietate lotte per il potere cui il pacifico vivere delle campagne si pone in netto contrasto.

Nel mito della fondazione di Roma traspare un passaggio storico fondamentale dell’umanità nella sua evoluzione, quello della differenziazione  e del conflitto tra l’economia e la cultura pastorale  e quella più specificamente agricola dei villaggi che, accresciuti di numero e benessere, specializzatisi in forme di artigianato sempre più raffinato si avviano alla trasformazione in città. A Romolo, divenuto agricoltore sedentario, per volontà degli dei tocca in sorte il tracciare il solco a delimitare la prima città dei Latini e marcare la proprietà di terre ed edifici,  invalicabile pena la morte al gemello Remo pastore: alle greggi viene proibito pascolare laddove, sui fertili campi, cresce il grano e si coltivano ortaggi e frutta intorno ad un villaggio.

I pastori ed il loro bestiame errante sono respinti dalle terre più produttive verso quelle più marginali e meno fertili; nella nuova economia agricola gli animali domestici vengono allevati in numero di capi limitato ed in rapporto alle superfici dei terreni stessi lasciati a riposo ed a foraggio dopo lo sfruttamento cerealicolo, vengono tenuti in recinti e stalle e lasciati al pascolo solo dopo i raccolti, a spigolare e concimare la terra prima dell’aratura.

La leggenda di Romolo e Remo riflette pur inversamente quella biblica di Caino ed Abele. Per lo stesso motivo, Caino agricoltore uccide il fratello Abele pastore e dopo l’omicidio fonda una città. Mentre in Lazio gli dei sono dalla parte di Romolo, capostipite di agricoltori guerrieri sedentari, nella tradizione di un popolo di pastori nomadi e predoni all’occorrenza, quali gli ebrei, il loro dio, distruttore di città quali Sodoma e Gomorra, è dalla parte di Abele.

Indubbiamente, la necessità di delimitare i campi coltivati e di proteggerli dalle incursioni dei pastori e dalle loro razzie che non riguardavano solo i foraggi, indusse alla formazione del concetto giuridico di proprietà privata delle terre di cui anteriormente l’uso era di diritto comune.

Decadenza dell’Agri-Cultura

L’Agri- Cultura fu dai Latini  tenuta   in grande considerazione tanto da essere celebrata da molti autori classici sia per quei suoi alti valori e virtù morali e spirituali oltre che riconosciuta quale supporto indispensabile alla sopravvivenza della città e dei cittadini.

I primi romani furono allevatori e coltivatori, all’occorrenza forti e valorosi guerrieri, temprati dalla vita agreste. Convocati in caso di consulto e necessità nell’Urbe, onorato il loro dovere civico politico e militare, ritornavano alla semplice vita dei campi, ritenuta moralmente “pia e virtuosa”.  Tutte le “gentes” romane avevano proprietà nell’agro, come veniva definita la campagna coltivata. In premio a chi serviva nell’esercito, patrizio o plebeo che fosse, se giungeva a fine carriera,  venivano inoltre assegnati appezzamenti di fertili terreni nelle aree di nuova conquista. La tradizione romulea di assegnare un’esigua estensione di terreno ad ogni cittadino, circa due iugeri, detta heredia, sufficiente al fabbisogno di autosufficienza diretta di una famiglia, fu nel tempo dimenticata e, in particolar modo dopo la seconda guerra punica, l’accumulo di terre in grandi latifondi divenne comune tra i ricchi patrizi dell’urbe.

Varrone scrive la sua opera nel 37 a.C., già anziano, mentre Virgilio compone con altri scopi le sue Georgiche. Virgilio,  in un periodo post guerra civile in cui una crisi agricola era emergente intende rammentare ai suoi contemporanei quale sia l’arte antica di far produrre i campi, allora già coltivati  con metodi intensivi  nei grandi latifondi mediante il lavoro degli schiavi, fattori e servi e poco fruttuosi.  Varrone, promuovendo l’idea del progresso continuo, si preoccupa di suggerire nuove attività industriose per ricavare maggiori rendite dalle tenute agricole. Lo scrittore latino pone anche un accento nostalgico alla sua prosa, ricordando il passato come un tempo di prosperità a paragone dei tempi moderni e celebrando non senza una certa retorica i valori tradizionali, l’etica e la cultura rurale degli antenati pastori e contadini, uomini liberi e diretti coltivatori dei propri piccoli fondi.

Virgilio, dal canto suo, scrive le sue rime su suggerimento di Mecenate, potente e ricco patrizio amico  e consigliere del neo primo imperatore Augusto, il quale  divenne il più grande latifondista dell’epoca, con circa un terzo delle terre migliori dell’impero ed in grado di condizionare a suo favore anche i mercati delle merci agricole. Ciò nonostante, la preoccupazione di Augusto era quella di dare terre a 500.000 veterani dell’esercito e alle loro famiglie e trasformarli in piccoli coltivatori diretti. Una figura già presente nell’antica Roma, quella dei piccoli proprietari lavoratori dei propri terreni, i quali in tempi di crisi si offrivano anche come braccianti, affiancando gli schiavi al lavoro nei grandi latifondi.  A tutta questa umile gente, Virgilio, anch’esso di umili origini, rivolse principalmente  il suo lavoro di educazione in sintonia con le intenzioni imperiali : “E tu sopra tutti, o Cesare…  (che) come me hai avuto pietà dei coloni inesperti” (ignaros…viae mecum miseratus agrestis .. -Georg. I, 41)

Nonostante solo un terzo degli esametri dell’intero poema illustri specificatamente cognizioni agrarie, ed il poeta stesso ammetta che non sia sua intenzione abbracciare tutto il sapere agronomico, quest’opera mira espressamente a fini educativi.

Il mito del buon “cives romanus” il quale si ritira dopo un’onorata vita pubblica, politica e militare, nella sua villa di campagna a dedicarsi anima e corpo alla vita agreste dei suoi antenati, progressivamente si opacizza fino a diventare una figura retorica. La vita urbana nell’epoca imperiale con i suoi vantaggi e comodità, i suoi lussi nonché vizi e mollezze, cui l’uomo è per natura sensibile, attrae lusinghiera il patrizio così come il plebeo. Sempre più di rado il pater familiae si occupa direttamente della cura della fattoria, lasciandola sovente in balia di sovrintendenti e schiavi e tendendo più a realizzarne profitti da coltivazioni intensive che a viverci come era costume, per mantenere la sua vita cittadina.

Così scrive infatti Columella, vissuto nel I secolo: “ … abbiamo consegnato il mondo rurale, che i migliori dei nostri antenati hanno trattato con massima cura ai peggiori dei nostri servi, come a dei carnefici … tutti noi capi famiglia abbiamo riposto la falce e l’aratro per strisciare dentro le mura della città e battiamo ora le mani nei circhi e nei teatri invece che nei campi di grano e nelle vigne.. smaltiamo le nostre indigestioni quotidiane con bagni caldi … spendiamo le notti in licenziosità ed ubriachezza, i nostri giorni a giocare d’azzardo ed a dormire e ci consideriamo fortunati nel non vedere ne il sorgere ne il tramontare del sole”.

Il problema di quel tempo della riduzione della produttività dei campi,  imputata allo sfruttamento intenso delle terre agricole nel passato, alle calamità naturali, alla terra che come ogni cosa invecchia ed addirittura al cambiamento climatico non trova affatto d’accordo Columella la cui voce, nel suo “De Re Rustica” si eleva dal coro dei lamenti fatalistici dei principi dell’Urbe.

Annota innanzitutto l’autore, non senza un certo rammarico, come  “In questo Lazio e terra di Saturno, dove gli dei hanno insegnato a produrre i frutti dei campi, noi mettiamo (oggi) all’asta il grano importato da oltremare, così che non abbiamo  a patir fame; e riforniamo i nostri magazzini di vino dalle isole Cicladi e dalla Spagna e dalla Gallia”.  Le cause per Columella sono altre, riassunte nell’antico proverbio già in auge : “l’occhio del padrone ingrassa i campi”, e non ultimo il fatto che l’Agricoltura “nella mentalità e nella considerazione comune sia divenuta un sordido lavoro ed affare di profitto che non necessita più di maestria e precetti” e, “lontano dalla verità è ritenere, come sostenuto da molti, che occuparsi di agricoltura sia estremamente facile e non richieda affatto acutezza mentale”. Da parte sua, ci tiene a dire: “ quando guardo alla magnificenza del tutto come all’immensità di un grande corpo o come alla minuteria delle sue innumerevoli parti quali singole membra, temo che i miei ultimi giorni mi possano raggiungere prima che io possa arrivare a comprendere l’intera scienza agricola. Chi professi di essere maestro in questa scienza deve avere una sagace conoscenza del mondo naturale”. (Col.Prefazione al De Re Rustica)

Columella, nato a Cadice, tribuno ed appassionato esperto agricoltore egli stesso, ci ha lasciato dodici volumi giunti a noi pressoché integrali del suo “De Re Rustica”, i quali furono riscoperti agli inizi del ‘400. La sua opera è importante non solo dal punto di vista puramente letterario, ma anche perché costituisce la maggior fonte di conoscenza scientifica dell’Agricoltura romana, insieme ai libri di Varrone, Virgilio, Catone, Palladio e pochi frammenti di altri autori classici. Testimonia inoltre l’inizio della decadenza di questa arte e scienza “magna” come era definita e considerata, progressivamente passata in secondo piano all’emergere della civiltà urbana. Una decadenza che peggiorerà ulteriormente con l’affermarsi prima del cristianesimo e poi nei secoli bui del medioevo, in cui l’agricoltura diverrà appannaggio quasi esclusivo dei monaci e dei disprezzati servi della gleba: quei rozzi ed incolti villani discendenti dagli abitanti dei villaggi rurali, i  “pagi” da cui vennero i rustici nominati pagani per il loro superstizioso attaccamento alla madre terra ed alla antica religione della Natura, così difficile da estirpare sia con la parola che il bastone, portatori di una umile cultura rurale opposta agli sfarzi di chiese e castelli.

 

Rinascimento dell’Agri-Cultura 

I Longobardi che scesero ed occuparono parte dell’Italia nel VI secolo si trasformarono da guerrieri in agricoltori ed allevatori e, dominati dai Carolingi finirono nei secoli successivi a dover cedere le loro terre alla nobiltà feudale od alla Chiesa e divenirne i contadini, insieme alle sopravvissute genti di stirpe romana, bizantina o di altre tribù barbariche stanziatesi nella penisola.

Agricoltura, pastorizia ed artigianato, caccia e pesca, raccolta dei frutti selvatici furono per secoli le attività economiche e la vita stessa dei villici, la maggioranza della gente che viveva nei distretti e nei villaggi rurali di autosufficienza a livello domestico e di piccole comunità così come nei monasteri i monaci. Il signore aristocratico od ecclesiastico di rado si occupava personalmente di agricoltura, considerata pratica vile da rozzi servi della gleba e preferiva  vita di corte quando non affari ed intrighi politici nonché dedicarsi ai fatti d’arme. Il castello, il borgo e l’abbazia fortificata sono le caratteristiche architetture medievali e conflitti tra signorotti locali e guerre tra imperatori e papi o loro vassalli sono all’ordine del giorno con conseguenti saccheggi, devastazioni e carestie ai danni delle campagne, già poco produttive per l’ignoranza della dimenticata arte agricola, salvo eccezioni.

Fu presso i monaci che molti testi antichi, scampati dai roghi dell’intolleranza cristiana del IV e V secolo vennero ricopiati, diffusi e letti. Tra questi, il trattato in quindici volumi di Rutilio Tauro Palladio, l’ Opus Agricolturae o anch’esso detto parimenti alle opere di Varrone e Columella De Re Rustica, il quale non solo trovò fortuna nelle mani dei copisti ma fu per tutto il medioevo un apprezzato testo scientifico di Agricoltura, presente in numerose biblioteche, in particolare in quelle dell’ordine cistercense e fu tradotto anche in diverse lingue volgari. Dopo Palladio, che visse nel IV secolo, si verificò un vuoto di almeno ottocento anni in cui non fu prodotta alcuna opera degna di menzione in materia di Agricoltura, fino a quando il bolognese Pietro de’Crescenzi non scrisse il suo Liber Ruralium Commodorum nei primi anni del ‘300, ispirandosi al Palladio medesimo. Fu seguito più tardi, durante il Rinascimento, che diversi altri autori riportarono in auge l’antica scienza dell’Agricoltura, nell’ambito di una generale rivalutazione della Civiltà Classica quale età aurea da cui l’umanità era decaduta, ma che rimaneva quale esempio e modello cui ispirarsi e dalle cui radici trarre nuova linfa per lo sviluppo di una nuova civiltà.

Agli inizi del ‘400, si deve a Poggio Bracciolini la scoperta nella biblioteca  del monastero di San Gallo, in Svizzera, di una copia d’età carolingia del perduto De Re Rustica di Columella. Opera sino ad allora considerata perduta, di cui il de’ Crescenzi conosceva solo alcune citazioni riportate dal Palladio, suscitò un grande interesse nei letterati rinascimentali i quali, entusiasti, fecero di questo testo in particolare e non senza ragione, una sorta di bibbia agricola. Fu diffuso prima in forma manoscritta anche in preziose edizioni, come il codice miniato E39 conservato presso la biblioteca Vallicelliana di Roma ed in seguito fu stampato in numerose copie, anche di notevole pregio, tradotte in diverse lingue ed in ogni parte d’Europa.

Caratteristica comune dei  trattati degli agronomi rinascimentali e dei due secoli successivi è non solo l’ammirazione per gli antichi testi classici di Agricoltura, ma anche e soprattutto l’ispirarsi come già il de’Crescenzi ai loro principi, contenuti e modelli ed il porsi, pur con qualche revisione ed aggiornamento quali eredi di Catone, Varrone, Columella, Palladio ed altri, tra cui Plinio. Nel ‘500 venne anche recuperata e tradotta in latino ed in diverse lingue europee un’opera greca bizantina risalente al X secolo, i Geoponica, una sorta di enciclopedia agraria composta di venti libri, già parzialmente nota in occidente nel basso medioevo. Nel medesimo secolo, l’intero corpus dottrinale delle opere classiche di Agricoltura fu pressoché completamente recuperato così come ne possiamo disporre ai giorni nostri.

Oltre all’opera del citato de’Crescenzi, anche l’ Obra de Agricultura dello spagnolo Gabriel Alonso de Herrera, leVinti giornate dell’agricoltura dell’italiano Agostino Gallo, i Rei rusticae del tedesco Konrad Heresbach e ilThéatre d’agriculture et mesnage des champs del francese d’Olivier de Serres ebbero in seguito un’intensa circolazione in Europa, prima come manoscritti ed in seguito stampati, sia in versione originale che tradotte. Promossero una vera rinascita del sapere agricolo, sia quale eredità antica che nuovo inizio nel segno di una continuità dal passato, al presente ed al futuro dell’Agricoltura quale arte e scienza cosi come la definì Varrone:“ Non solo è arte, ma anche necessaria e magna; ed è anche scienza, di cosa sia da coltivare e come, affinché la terra in perpetuo produca i massimi frutti”. (non modo est ars, sed etiam necessaria ac magna; eaque est scientia, quae sint in quoque agro serenda ac facienda, quo terra maximos perpetuo reddat fructus. ( Varro. I,3)

Il de’ Crescenzi per primo, seguito dagli autori successivi fioriti in epoca rinascimentale, recuperò l’idea dell’Agricoltura quale arte nobile, come già presso gli scrittori latini citati,  che si addice al signore proprietario di terre, finalizzata ad utilità e diletto, utilitatas et delectatio, riprendendo in questo  quanto già Varrone affermava:“… gli agricoltori esperti a due scopi si debbono volgere, all’utilità ed al piacere. Utilità fine al frutto, piacere al diletto, ma prima viene l’utile, poi il dilettevole” – (profecti agricolae ad duas metas dirigere debent, ad utilitatem et voluptatem. Utilitas quaerit fructum, voluptas delectationem; priores partes agit quod utile est, quam quod delectat –Varro I, 4)

Utilità nel produrre innanzitutto l’autosufficienza di una fattoria a ciclo chiuso rinnovabile e perenne e garantirne il benessere agli abitanti, umani, animali e vegetali, ai padroni come ai dipendenti, educando questi ultimi alla conoscenza ed alla pratica di questa arte e scienza; a riguardo, pur mantenendo una certo pregiudizio aristocratico verso i villani, considerati ladri ed approfittatori, il signore in villa è chiamato ad un atteggiamento umanitario e caritatevole verso i sottoposti, prendendosi cura del garantir loro salute e migliori condizioni di vita, beninteso nell’interesse stesso del padrone.   Diletto non solo nel saper apprezzare e godere dei piaceri e delle bellezze della vita in campagna, benefica al corpo così come allo spirito, dedicandosi al giardinaggio, alla caccia ed alle passeggiate a cavallo, cui coinvolgere anche le signore altrimenti annoiate se non schifate della vita rurale, ma anche nell’occuparsi personalmente con occhio attento e conoscenza di causa di agricoltura, non delegando pertanto la gestione della tenuta a fattori e risiedendo quanto più possibile nella propria dimora rustica. Quella villa di campagna cioè, spesso elegante e confortevole, che dal XVI secolo inizierà a diffondersi nel contado, sostituendosi alle case torri fortificate dei signorotti medievali e diventando una sorta di costume dell’aristocrazia e dei ricchi mercanti urbani i quali traevano dalle loro tenute, se ben governate, reddito ed  anche ricchezza. Il signore, all’inizio della buona stagione si trasferiva “in villeggiatura” dal suo palazzo cittadino, cui faceva quindi ritorno per svernare, ai primi freddi o al termine dell’anno agrario.

I manuali di Agricoltura rinascimentali e del successivo periodo non sono però esclusivamente rivolti al grande latifondista  nobile, ecclesiastico o ricco mercante, ma sono estesi a qualsiasi possidente agrario, anche  piccolo, riprendendo in questo un verso di Virgilio, riportato da Columella  il quale, celando una certa saggia prudenza, diceva: ammira pure le grandi tenute ma coltivane una piccola.  (laudato ingentia rura, exiguum colito -Virg. Georg. II, 412-413). Un concetto ribadito in altre parole pure dal Palladio quando afferma : “più fecondo è un piccolo campo ben curato di una grande superficie trascurata” (Fecundior est culta exiguitas quam magnitudo neglecta – Palladius I, 6-8).

Fu politica dei sovrani “illuminati” favorire anche la piccola proprietà contadina tramite l’assegnazione di terre espropriate ad enti ecclesiastici. Un piccolo fondo poteva garantire l’autosufficienza di una famiglia rurale, soprattutto se l’economia locale era protetta da dazi contro le speculazioni dei commercianti e degli industriali borghesi. A questa politica di assegnazione delle terre ai contadini si opposero però i grandi latifondisti da un lato e il fatto che i contadini in genere non avevano comunque sufficiente denaro per riscattare le terre, le quali, dopo gli espropri agli enti ecclesiastici, vennero acquistate invece in prevalenza da mercanti e ricchi borghesi. La rivoluzione francese e i successivi moti unitari risorgimentali travolsero quindi l’ancien regime e la sua economia agraria fondata sulla moneta aurea ed introdussero l’attuale sistema economico e finanziario di libero mercato, moneta cartacea inflazionata, borse merci e banche, trasformando progressivamente le masse contadine in proletariato urbano asservito al profitto capitalista della trionfante borghesia.

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Materia Primaria

Introduzione all’intervento : Ricostruzione del paesaggio Agrario, di Alberto Grosoli, nell’ambito di:

Emanuela Ascari

MATERIA PRIMARIA

Inaugurazione 2 giugno 2013 – ore 16,30

Presso Sala Cantelli – Via Cantelli

Museo Civico di Vignola

Incontro con l’autrice, con Milena Bertacchini geologa, con Paolo Ghiddi e Alberto Grosoli imprenditori agricoli 

Il lavoro intende rivalutare la terra, nella sua accezione più ampia, come materia primaria di conoscenza e cultura, attraverso l’allestimento di un archivio di “libri di terre” che vanno a comporre una nuova area disciplinare tra le categorie del sapere di una biblioteca. Alla base di questo lavoro vi è una revisione del paradigma che lega l’essere umano al proprio ambiente secondo una visione ecosofica, ecocentrica piuttosto che antropocentrica,per la quale l’uomo è solo una parte di un ecosistema complesso, e il suo sapere viene in primo luogo dalla Terra. Campioni di terreni, rocce, sabbie, argille, fossili, prelevati nella provincia di Modena con attenzione alle varietà litogeologiche e dei suoli che caratterizzano il territorio, e catalogati secondo il luogo di provenienza, sono i testi di questo sapere. I prelievi sono stati eseguiti con la collaborazione della geologa Milena Bertacchini del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e contattando alcuni imprenditori agricoli locali che coltivano in modo biologico e biodinamico, in una lunga esplorazione del territorio, dalla Bassa modenese all’Appennino Tosco-Emiliano.

Perché di questo si tratta: non di cercare il modo in cui la mente fa luogo, ma il modo in cui il luogo fa la mente.M. Meschiari, 2010

Emanuela Ascari si è laureata al Dams di Bologna e ha conseguito il master Paesaggi Straordinari al Politecnico di Milano. E’ docente del corso di Progettazione di Interventi Urbani e Territoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nella sua ricerca artistica indaga i processi di trasformazione del territorio,principalmente a partire dalla terra, dalle stratificazioni del tempo e della materia. Rielabora paesaggi esplorando la relazione tra l’uomo e il proprio ambiente, tra cultura ed ecosistema.

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Nella presentazione di questo lavoro di Emanuela Ascari c’è scritto: “l’uomo è solo una parte di un ecosistema complesso, e il suo sapere viene in primo luogo dalla Terra.”  E quindi una frase: “Perché di questo si tratta: non di cercare il modo in cui la mente fa luogo, ma il modo in cui il luogo fa la mente”.

Io sono un agricoltore organico, di scelta e passione, ma anche di tradizione familiare, comprendo bene il significato di queste frasi che condivido come fossero mie.

La natura, selvatica e coltivata è un libro aperto e molta della nostra conoscenza di agricoltori, cacciatori, raccoglitori è derivata da una lettura che non è astratta e teorica quanto pratica, ma deriva dall’esperienza di lavorare e vivere a contatto con gli elementi e le forze naturali, giorno dopo giorno, anno dopo anno, generazione dopo generazione che si trasmette la cultura del vivere in campagna, dei frutti della terra e delle nostre opere.

È luogo comune proprio della civiltà borghese ed urbana dipingere l’agricoltore come un contadino rozzo ed ignorante, disprezzare la terra e la natura, il lavoro umano nei campi come infimo.

In casa mia, al contrario, noi siamo stati invece sempre orgogliosi di essere agricoltori, non ci siamo mai vergognati di avere i calli alle mani sporche di terra, la città, pur vissuta, anche attraverso la scuola e in tutte le sue lusinghe, ci è sempre parsa un altro mondo, parallelo e complementare, ma per noi, per me come mio padre e mio nonno, la vita vera è sempre stata quella in campagna, la vera cultura quella dei campi coltivati, del fiume e dei boschi, della caccia e della pesca, della raccolta dei funghi e delle fragole in montagna.

Io, pur avviato alla vita urbana, questa cultura l’ho cercata e ritrovata per mie vie personali, ma tanta parte l’ho ricevuta anche dai miei genitori, nonni e bisnonni, sia da parte paterna che materna. Mia madre è figlia di mezzadri e mondine. Quando pochi anni fa scoprii il De Re Rustica di Columella, mi ricordava, leggendo certe frasi, mio padre, come fosse lui a pronunciarle. Ho conosciuto ed ascoltato inoltre tanti vecchi contadini, sono riuscito nella mia vita anche a viaggiare e conoscere altre realtà agricole, europee e di altri continenti, ho lavorato in altre terre.

L’agricoltura è una scienza ed un’arte. Parlo naturalmente dell’agricoltura organica, non dell’agrochimica moderna, quella super meccanizzata e specializzata, di quell’agricoltura, aggiornata ai tempi attuali come biologica o biodinamica, che non è affatto una novità secondo il paradigma progressista dello sviluppo illimitato, ma ha radici millenarie nel tempo e nella storia umana. Non abbiamo inventato nulla di nuovo, noi moderni “biologici”, tutto quello che facciamo lo facevano anche nell’antico Egitto, in Mesopotamia, i latini, i greci. Questo perché i fondamenti della fertilità organica sono sempre gli stessi, come i semi nascono sempre allo stesso modo, i vitelli pure, la frutta si pota ed innesta, falci, zappe, aratri sono gli stessi che usavano gli agricoltori secoli  e millenni fa, quando fiorenti agricolture furono a supporto di grandi civiltà del passato e l’agricoltura era considerata nobile occupazione degna di un uomo libero, più che lavoro da schiavi. Pane, vino e formaggio esistono da sempre.

Oggi abbiamo i trattori, un tempo i buoi, ma le campagne sono spopolate, un tempo erano invece vissute da una miriade di gente che cantava al lavoro e festeggiava i raccolti, ogni podere aveva una stalla, animali da cortile ovunque, vecchi e bambini, piantate di viti a delimitare biolche coltivate, unità a misura d’uomo e bestie. Il paesaggio è profondamente mutato negli ultimi decenni. La civiltà contadina, secolare se non millenaria, è tramontata, tanti cascinali sono in rovina e molti di più divenuti residenze urbane. I piccoli campi accorpati in grandi estensioni adatte alla meccanizzazione e all’agrochimica. Il bestiame concentrato in grandi allevamenti, il letame è un rifiuto industriale, un inquinante. Pensare che invece è il fondamento della fertilità organica come il bestiame è la chiave di volta della catena alimentare sembra un anacronismo. Abbiamo i fertilizzanti dal petrolio, siamo moderni, e con questi i diserbanti, gli insetticidi, gli antibiotici, le sementi geneticamente modificate, pecore, maiali e vacche clonate.

Mio padre credeva in questo tipo di progresso ed aveva riformato il podere secondo questi concetti industriali e moderni, dalla morte di mio nonno che invece era ancora all’antica, orgoglioso dei suoi salumi, del parmigiano dal latte delle sue dieci vacche modenesi bianche chiamate ciascuna per nome, del vino delle sue piantate miste di diversi tipi di uve, della sue mele lavine. Aveva mezzadri, bovari e braccianti, carri di legno e buoi, sostituiti poi da un piccolo trattore nel 1962, che io ancora custodisco ed uso. Poca terra, non un latifondo, ma tanta gente a lavorare e viverci. Quattro famiglie dove oggi io non riesco a tirarci fuori un reddito decente. Ma c’era anche un Panaro che era una favola a raccontarlo oggi, c’erano le risorgive perenni, c’era l’acqua del canale di Spilamberto che scorreva nei fossi, d’estate, ed irrigava i campi e noi bambini a farci il bagno, nei prati stabili allagati. Terra fertile, ben letamata, e il suono delle coti che affilavano le falci.

Il luogo faceva la mente, per riprendere la frase iniziale, mente che esprimeva un linguaggio contadino, il nostro dialetto fondato su parole, detti e proverbi legati alla terra ed al modo di vita rurale e naturale.

 


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L’Ecosistema Coltivato : selvatico e agricoltura

L’ECOSISTEMA COLTIVATO: SELVATICO E AGRICOLTURA (parte prima)

 

Un terreno qualsiasi, lasciato incolto, o messo a nudo per qualche ragione, uno sbancamento, una frana, un incendio è una lesione all’epidermide di Gaia, viene ricolonizzato dalla Natura e riportato al selvatico. Come sulla nostra pelle si cicatrizza una ferita superficiale.

Quello agrario si riveste immediatamente di un manto erboso di cosiddette “infestanti”, secondo la vulgata agrochimica, ossia specie che nessun agricoltore vorrebbe tra le sue coltivazioni, dalla gramigna allo stoppione spinoso, e quindi chenopodio, amaranto, persicaria e tante altre erbe i cui semi giacciono latenti nel suolo indisturbato e trovano le condizioni adatte per germinare. O semi portati dal vento, dagli uccelli e da altri animali, indigeriti e rilasciati tra le loro feci che ne fanno da corredo di primo concime nutritizio; o semi aggrappatisi nel passaggio attraverso altri luoghi incolti alle loro piume e pellicce e da queste caduti su quel terreno.  Non solo semi di erbe, ma anche di cespugli e piante, dai rovi, alle vitalbe e quindi pioppi, acacie, aceri, biancospini, querce, di tutto e di più che ci possa essere disponibile viene impiegato dalla Natura alla rigenerazione biologica di quel terreno. Ci sono piante azoto-fissatrici, tutte concorrono con il loro decadimento alla formazione di Humus forestale. Alcune affondano le loro radici in profondità per riportare in superficie minerali che verranno quindi resi disponibili al nutrimento vegetale di altre piante.

In Primavera ed Estate un terreno incolto, rivestito, esplode della bellezza di fioriture e profumi, attira api ed insetti, inizia a popolarsi di vita biologica.

Quel terreno è irradiato di luce e calore solare nell’ordine misurabile di centinaia di watt a metro quadro, variabili a seconda delle stagioni, in cui diverso è l’angolo di inclinazione dei raggi provenienti dalla nostra fonte primaria della vita. Non dimentichiamo mai neppure il fatto che tutti gli elementi terrestri solidi, gassosi o liquidi derivano dalla scissione nucleare dell’Idrogeno in Elio, un atomo e un elettrone diventano un altro atomo con due elettroni, e quindi, tre nel Litio , poi quattro, sei come nel Carbonio, sette nell’Azoto o otto come nell’Ossigeno e così via. Elementi che sono nell’Universo delle Galassie oltre che componenti della materia inorganica ed organica del nostro pianeta. Nel Cosmo esistono già, inoltre, anche forme di vita organica, molecole e batteri che resistono nel vuoto e a enormi sbalzi termici, dallo zero assoluto di scala Kelvin alle ustionanti radiazioni solari le quali, oltre la nostra pellicola protettiva dell’atmosfera terrestre e delle fasce elettromagnetiche, sono mortali al pari del gelo estremo.

Qui, sulla Terra, in quel terreno incolto e spoglio che si rigenera alla vita selvatica, gli elementi minerali si compongono su modelli predefiniti a creare la struttura delle cellule vegetali, delle radici, fusti, foglie, fiori e semi. L’Energia solare fa da catalizzatore al processo di Fotosintesi, in cui dalla linfa radicale e dall’atmosfera nelle piante si sintetizza  la molecola fondamentale di tutta la Catena Alimentare, quella dell’Idrogeno e del Carbonio, alla quale si aggregano gli altri elementi a formare gli zuccheri, la cellulosa ed altri composti dei tessuti ed organismi vegetali. Questo è il grande miracolo della Vita che accade ogni momento, da milioni di anni, che passa inosservato e dimenticato, come banale è anche il sorgere e tramontare degli astri e dei pianeti, che avviene nell’indifferenza più inconsapevole degli esseri umani moderni. Gli animali sono invece molto più sensibili, celebrano a modo loro, ogni giorno, la Vita: pensiamo al canto degli uccelli all’alba, alle grandi sinfonie che in primavera, alla mattina presto, ancora col buio, si alzano ovunque, dalle siepi e dagli alberi, dalle erbe dei prati. L’arrivo e l’esplosione del nuovo ciclo vitale dell’anno è marcato dal canto degli uccelli sino all’estate, le cui notti sono intrise dei canti di grilli, rane e cicale, degli assoli degli usignoli.

Tornando al tema, l’Energia solare, catalizzatrice della Fotosintesi, si fissa nelle molecole vegetali come energia chimica di legame, la quale, ad ogni passaggio nei metabolismi animali viene rilasciata sotto forma di calore, secondo la legge della termodinamica, sino all’Humus fine e principio di ogni processo vitale. I corpi animali erbivori si nutrono di materia vegetale, traggono dalla frantumazione ruminale e gastrica delle molecole gli elementi minerali materiali necessari alla costituzione e mantenimento dei loro tessuti ed al funzionamento dei loro organi ma ne traggono anche l’energia vitale che si libera come caloria, che noi misuriamo in unità di Joule, dai corpi caldi degli animali al calore dei compost vegetali e dei cumuli di Letame. Ci nutriamo anche di Energia, di quella degli alimenti come del “Prana”, dell’Ossigeno ed Azoto, di altri gas rari dell’atmosfera, scientificamente definiti.

In quel terreno incolto, spoglio agli inizi, in cui la Natura riprende la sua opera di colonizzazione del selvatico, la massa vegetale che si crea altro non è che un accumulo di Energia solare immagazzinata nei legami molecolari delle piante, migliaia e milioni di calorie si fissano sulle strutture fondamentali del Carbonio e Idrogeno. Il Carbonio, in particolare, viene sequestrato, si dice, dall’atmosfera in cui si trova come gas e fissato al suolo, nelle piante e nel terreno. Quel terreno prima incolto diventa ricco di Energia solare immagazzinata nella massa vegetale, la quale richiama come ospite e nutrimento le specie animali, si popola di vita, dalle forme più minuscole di batteri funghi e protozoi, all’edafon sino agli Erbivori, agli Onnivori ed ai Carnivori. Si ricrea un ecosistema naturale, una nicchia di ecosistema che provvede autonomamente dall’ingerenza umana all’organizzazione spontanea della propria sopravvivenza attraverso cicli vitali perenni e rinnovabili. La Natura non ha bisogno dell’uomo per esistere, ne precede l’avvento di milioni di anni e la nostra comparsa accadde quando la Natura stessa creò le condizioni adatte e favorevoli ad accoglierci nei propri ecosistemi selvatici, fornendoci di ogni nutrimento e materia prima necessaria alla nostra sopravvivenza, sviluppo ed evoluzione. Nella Catena Alimentare, non produciamo nulla, siamo commensali,  ospiti alla mensa di Madre Terra.

>Continua …

Pubblicato: Circolo Vegetariano V V. T T

 

L’ECOSISTEMA COLTIVATO: SELVATICO E AGRICOLTURA (2° parte)

“Nella Catena Alimentare non produciamo nulla, siamo commensali, ospiti alla mensa di Madre Terra”: così ho concluso la prima parte di questo scritto, ed in sé questo era vero per i nostri antenati cacciatori e raccoglitori i quali trovarono nutrimento e materie prime rinnovabili necessarie alla loro sopravvivenza nell’ambito degli ecosistemi naturali, in particolare in quello del pascolo, nelle fasce temperate del pianeta.

Ed è vero anche oggi, in quanto non è l’uomo che crea direttamente i propri alimenti, anche se modifica batteri, piante e animali in laboratori di genetica e si crede dio in terra, ma la Natura stessa, la quale, come da sempre, vi provvede benigna: l’uomo semplicemente interviene ed assiste al processo produttivo naturale, ne asseconda le  dinamiche ed i cicli, lo dirige ai fini voluti.  Pone un seme nel terreno smosso, il quale  germina perché ogni seme germina comunque per propria funzione, venga posto da mano umana o sia caduto al suolo dalla pianta madre. Ogni  fattrice avrebbe i propri vitelli e ogni gallina farebbe comunque le uova, fossero liberi in natura, a prescindere dall’allevatore. Coltivare è un atto di cooperazione con Madre Terra, di cui siamo custodi guardiani e non padroni assoluti, che avremmo il dovere morale di consegnare alle nuove generazioni, ai nostri figli, migliore di come l’abbiamo ricevuta dai nostri padri. Così la pensava anche mio bisnonno, a cui dobbiamo, suo figlio, suo nipote ed io ultimo l’eredità delle nostra pur poca terra e della tradizione del viverci da contadini.

Riprendendo il filo del discorso precedente riguardo al terreno incolto che si rigenera a riformare tendenzialmente un ecosistema selvatico, il processo naturale prevede che sia il bosco, alla fine, a prevalere, se non viene disturbato non solo dall’uomo, ma anche da un certo tipo di animali, gli erbivori, il cui habitat non è la foresta, ma il pascolo.

Se un cervo o un capriolo frequentano quel terreno, ruminanti come la capra selvatica, o una lepre, ne provvederanno a brucare ogni germoglio di pianta o cespuglio forestale sia perché si nutrono come ogni erbivoro pure  di fogliame e cortecce tenere, ma perché questa opera di disboscamento precoce è in funzione al creare il loro ambiente ideale: la radura soleggiata in cui crescono le erbe foraggere, in cui si forma  il prato stabile naturale, ricco di essenze diverse, non solo altamente nutritizie ma anche salutari per il benessere animale.

Altro fattore del tutto naturale nella creazione di radure a pascolo è l’incendio accidentale della foresta, per fulmine, e su un terreno bruciato la prima essenza vegetale a ricrescere è un manto erboso, che attira gli erbivori.

Un amico pastore mi diceva che le sue pecore non rimangono pregne  se pascolano erba di sottobosco, cresciuta all’ombra, hanno bisogno di foraggi che prendano dal sole tutta l’energia diretta. Inoltre, l’humus forestale è acido, vi crescono solo funghi, fragole, sorbi, alberi da bacche e ghiande, l’erba è amara, gli zuccheri si formano meglio in piena luce.

All’analisi chimica i parametri di fertilità organica dell’humus forestale presentano un medio alto rapporto carbonio/azoto, una media capacità di scambio minerale tra suolo e radici, una mineralizzazione rapida, una umificazione completa della materia vegetale che però è più o meno stabile. Un suolo forestale messo a coltivazione può rendere qualcosa per un breve periodo, la qualità del prodotto non è eccellente, la fertilità si esaurisce in fretta anche per dilavamento ed erosione, può avere forti carenze di calcio e magnesio. D’altra parte anche un humus di sole foglie, lignine ed erba ha poco potere nutritivo, se si fa un compost di questi materiali per l’orto, un grande cumulo si riduce a meno del dieci per cento della sua massa iniziale, ha un basso coefficiente isoumico in termini tecnici, non ha un grande effetto nel suolo, è acido ed andrebbe bilanciato con cenere, alcalina.

Il terreno aperto pascolato dagli erbivori invece, la prateria, presenta altre caratteristiche biochimiche e fisiche, è armonico tra acidità ed alcalinità, ha il potere di mantenere questo equilibrio e tamponarne gli eccessi in un verso o nell’altro, il rapporto carbonio/azoto è anch’esso bilanciato, la capacità di scambio degli elementi minerali con le radici è ai massimi livelli, il complesso argilla humus è stabile, l’umificazione completa e la mineralizzazione lenta, la struttura è sciolta, è ideale per la crescita di un certo tipo di piante alimentari selvatiche per il bestiame stesso, il quale contribuisce quindi a creare il proprio habitat o ecosistema e a produrre il proprio nutrimento.

Che non consiste solo di erbe foraggere,  fogliame e cortecce tenere, ghiande, ma, attenzione, anche di cereali, di vegetali molto zuccherini nelle foglie e radici, di tuberi, leguminose, di frutti dolci: tutti, allo stato selvatico furono originariamente loro nutrimento e lo sono ancora oggi. Si provi a lasciar libero un erbivoro domestico e si vedrà che, dopo una qualche distratta boccata d’erba, punterà dritto all’orto o alla vigna o al frutteto. Quando mai la soia Monsanto della moderna dieta “unifeed” è stata alimento forzato del bestiame da 200 milioni di anni a questa parte?

E non è che la Natura  producesse spontanea questi vegetali ovunque, nei boschi, nelle pietraie o sulle spiagge del mare: questi alimenti crescevano solo ed esclusivamente nei pascoli transumanti del bestiame selvatico, nelle praterie e in particolare nelle golene fluviali, ricche di acqua, di cui anche gli animali tutti hanno un gran fabbisogno, è gratuito dono di Natura e tendono questi ad affollarsi dove ce ne sia in abbondanza, presso le rive di fiumi, laghi, stagni e paludi.

Qual è il fattore chiave della fertilità organica di questi terreni? Sono i letami degli erbivori, oltre alle loro carcasse decomposte al suolo, alle loro pelli, ossa, corna, unghie, sangue, misti a materia vegetale decaduta. Tra i concimi organici “antichi”, che ancora oggi pur a fatica si possono trovare, ci sono il cornunghia, la farina d’ossa, la farina di sangue, i cascami torrefatti di cuoio.

Gli erbivori ruminanti, attraverso il loro particolare metabolismo, trasformano la materia vegetale in humus fertile definito scientificamente anche humus delle praterie o humus agrario, sinonimi perfetti, e solo su questo tipo di humus, per le sue specifiche caratteristiche biologiche e fisiche, crescono bene, in salute e nutritivi, quelli che sono i nostri alimenti vegetali primari, oggi addomesticati, selezionati e migliorati talvolta, o peggiorati, che derivano da quelli selvatici originari: cereali, ortaggi, legumi e frutta.

Questa funzione di produttori di humus fertile è in particolare propria degli erbivori ruminanti, poligastrici, di quelli cioè che hanno tre sacche ruminali oltre allo stomaco, le corna e l’unghia bifida. Nelle tre sacche ruminali la materia vegetale viene scomposta da batteri, funghi e protozoi di ceppi che si trovano normalmente anche sul terreno, si sono adattati alle condizioni anaerobiche dei rumini, vengono ingeriti con il pascolo ed espulsi in parte con il letame. Trasferire bestiame bovino su altri terreni e pascoli lontani, nutrirlo con altri foraggi può causare problemi digestivi agli animali, se nei rumini non ci sono i batteri autoctoni adatti al processo metabolico. Il ruminante è quindi in simbiosi con il terreno che li produce, con i vegetali che vi crescono e di cui si nutre, i quali ritornano al suolo in ciclo perenne come il più potente fertilizzante naturale.

In quel terreno, i foraggi sono per questi animali non solo più appetibili ed odorosi, ma anche più nutrienti e a vantaggio della loro salute. La buona erba e il buon fieno si avvertono nel gusto e colore del latte, del burro e del formaggio, nella qualità delle carni. In quel prato rivoltato con facilità dalla zappa o dall’aratro crescono un frumento grasso che fa profumare il pane ed ortaggi, legumi, frutta, sani e ricchi di sostanza e sapore.

I letami degli altri erbivori monogastrici, mammiferi ed uccelli come gallinacei e colombi, in sinergia con quelli dei ruminanti, sono gli altri concimi organici creati da Madre Natura, ricchi di azoto, fosforo, potassio e altri elementi minerali immediatamente assimilabili dalle piante i quali nulla hanno di inferiore a quelli chimici inorganici, che non servono a nulla se non a fare i profitti delle industrie petrolchimiche che li producono, al pari di diserbanti e fitofarmaci vari, con grande spreco di energia fossile ed elettrica, nonché di risorse naturali finite come gli idrocarburi fossili.

Un terreno ben dotato di humus fertile nell’ambito di un fondo agricolo a ciclo chiuso di bestiame e rotazioni, di sementi e piante autoprodotte ed adattate al tipo di suolo, non ha bisogno di tutte queste porcherie chimiche, il letame è la medicina della terra.

> Continua ….

 

L’ECOSISTEMA COLTIVATO: SELVATICO E AGRICOLTURA ( terza parte)

La teoria classica del fondo agricolo preindustriale e precapitalista, nel quale era la rendita agraria e/o domenicale e non il profitto lo scopo economico, ha una tradizione che  i primi agronomi latini, i quali la raccolgono e la rielaborano nel modello di villa rustica, affermano di averla ricevuta dagli antichi che vissero in tempi già a loro remoti.

Questo si può ben comprendere se si pensa che l’impianto della villa rustica autosufficiente è concepito come agro-ecosistema modellato sull’osservazione ed imitazione degli ecosistemi naturali del pascolo.

Gli animali domestici, che derivano da quelli selvatici, sono trattenuti sul fondo agricolo non solo quale parte integrante della sua economia organica, ma quale suo fondamento, in particolare della fertilità del suolo da cui dipende la produttività e il complesso della vita biologica dell’organismo agrario.

Scopo dell’agricoltore era e sarebbe quello di produrre per sé stesso e la sua famiglia, quelle di eventuali collaboratori dipendenti, per il padrone della terra quando c’era, per lo scambio di vicinato nonché per il mercato urbano, alimenti e materie prime o trasformate naturali e rinnovabili. Allevare bestiame è un’attività che viene svolta entro i limiti delle risorse producibili destinate all’alimentazione animale, nell’ambito delle rotazioni agrarie tra pascoli naturali, pascoli artificiali e seminativi. Allo scopo concorrevano anche la silvicoltura che veniva normalmente praticata anche in pianura, fonte di foraggio, oltre che legname per vari usi.

Il numero di capi animali necessari al fondo agricolo è chiuso e dipende dalla superficie  e natura dei terreni. Si considera mediamente, ancora oggi in agricoltura organica, un numero di capi di bestiame grosso che si aggira su un capo di unità bovina adulta (UBA) per ettaro di superficie agricola utilizzabile (SAU), da un minimo di 0.5 ad un massimo di 1.5, oltre il quale occorre acquistare foraggi dall’esterno, o significa  avere un fondo veramente ricco di risorse e massimamente fertile e produttivo.

Essendo l’economia dei fondi tradizionali contadini  autosufficiente, si cercava di evitare ogni costo di materiali che non fosse possibile auto produrre con una saggia e lungimirante gestione, non solo foraggi, ma anche sementi e concimi innanzitutto : questo è il principio di sostenibilità ecologica, che per gli antichi era naturale ed oggi invece andiamo cercando come una novità.

Mia madre mi diceva inoltre che da terziari (neppure mezzadri, ossia ad un terzo in natura condiviso con un altro contadino e il padrone del fondo) si producevano tutto in casa, tessuti di canapa e lino compresi, escluso il sale per i salumi e l’olio per le lampade. Non mille anni fa, ma prima dell’ultima guerra.

Gli animali erano allevati da vita e le fattrici, come i maschi validi, di ogni specie, erano preziosi, ben trattati e gelosamente custoditi. Un paio di buoi valeva quanto oggi un grosso trattore, ne avevano la medesima funzione, e certo non era intelligente quanto stolto sfruttarli sino allo sfinimento, mal nutrirli e maltrattarli. Il bovaro esperto sapeva che più del bastone vale una buona strigliata, il tono della sua voce, la sua mano che porge un pugno di farina o di fieno, il condurlo all’abbeverata. Ogni animale era chiamato per nome e faceva parte della famiglia contadina, si lasciava avvicinare, toccare e mungere, nel caso delle vacche, delle pecore o capre. I maiali giravano liberi e come i cani rispondevano al richiamo, il pollame accorreva in massa incontro alla “rezdora” non appena questa usciva dalla porta di casa, la seguiva ovunque come una corte starnazzante, che veniva smarrita con sventolate di ramazza dal voler infilarsi anche in cucina.

Il rapporto tra esseri umani ed animali è forse una delle esperienze più belle che ci possano accadere, ma non parlo di quello a volte maniacale odierno con barboncini rasati con il cappottino o di gatti d’appartamento, cui ci siamo ridotti inurbandoci e vivendo con la natura madre di parchi ed aiuole cittadini, o che vediamo nei documentari, o consumiamo nelle vacanze come un prodotto alternativo presentando la tessera di una qualche associazione ambientalista per avere sconti particolari.

L’allevamento del bestiame domestico produceva un aumento di capi che costituivano un surplus rispetto alle risorse ad essi destinate, e venivano quindi tolti dal ciclo chiuso del fondo: ceduti da vita o da macello, consumati dalla famiglia contadina e/o padronale. Erano voce di rendita del fondo, al pari di cereali, ortaggi, frutta ed altri prodotti, del latte e dei formaggi, delle uova.

Il rapporto tra la vita e la morte era vissuto come destino ineluttabile dell’esistenza; il vivere in natura e dei frutti della terra e del lavoro umano non permetteva sofismi di alcun altro genere, la realtà della sopravvivenza diretta non lo permetteva. Tutto questo non ha nulla a che spartire con l’allevamento industriale moderno e il consumo di massa di carne e prodotti animali.

Il cacciatore, come il pescatore, non si poneva scrupoli di coscienza nel cacciare le sue prede, le quali erano il suo alimento naturale, come la gazzella per il leone, ma la sua arte venatoria sapeva quelli che erano i tempi di caccia e quelli di rispetto della riproduzione  e conservazione del patrimonio della fauna selvatica: conosceva per pratica la natura meglio di un professore di biologia e non sterminava mai una specie sino all’estinzione da un territorio, era stolto e controproducente.

Lasciava sempre vivo il “seme”, da cui si sarebbe riprodotto nuovo raccolto, selezionando i capi “maturi”. Uccidere un cucciolo era un crimine. Questo me lo insegnò mio padre che era anche cacciatore e pescatore, come tanti, se non tutti i contadini, suo padre e suo nonno. Appese al chiodo per sempre la sua doppietta e la sua lenza, quando vide che caccia e pesca erano diventati solo uno stupido sport per cittadini in cerca di svago e divertimento, di gente che faceva altri mestieri e non aveva affatto bisogno di integrare la mensa contadina domenicale con selvaggina di stagione o il venerdì con pesce di fiume. Mi disse, quasi d’autorità, di non diventare mai cacciatore o pescatore, pur avendomene insegnato, io bambino che lo seguivo, i rudimenti dell’arte.

> continua ….

 

L’ECOSISTEMA COLTIVATO: SELVATICO E AGRICOLTURA ( quarta parte)

Nei capitoli precedenti ho esposto, pur a grandi linee, quali siano i principi teorici dell’ecosistema coltivato quale riproduzione artificiale di quello selvatico del pascolo, sottintendendo che l’Agricoltura Organica ne sia tradizionale arte e scienza .

Un ecosistema coltivato è frutto di un progetto che deriva dalla sua teoria, la quale si desume dalle leggi naturali della catena alimentare delle zone temperate del pianeta.

Osservando un ecosistema selvatico originario del pascolo, che oggi non esiste più, gli elementi che lo compongono sono vegetali ed animali, biologici, fisici e chimici in interrelazione ecologica: ogni elemento è necessario ai fini dell’insieme, in funzione di creare un’unità organica complessa di ecosistema, nel quale l’energia solare perenne ne sostenga il ciclo continuo e rinnovabile.

Tradotto in pratica, significa, organizzare su piccola, media o grande scala questo modello: 1)fasce marginali boschive 2)prato stabile 3)seminativi a rotazione tra prati artificiali e coltivi arborati di frutta, viti ed olivi 4) orto-frutteto-giardino domestico con erbe officinali e fiori presso la corte colonica 5) corte colonica 6) domus rustica.

1)fasce marginali boschive. Il bosco e le sue essenze forestali miste hanno una funzione vitale importante se non primaria ai fini dell’equilibrio ecologico di un agro-sistema organico. Creato ai confini del fondo agricolo ne forma una cintura vegetale in cui si crea una nicchia ecologica ricca di vita propria ed il selvatico trova il suo ambiente protetto: uccelli, rettili, insetti, anfibi, mammiferi. Se ogni fondo contiguo ne fosse dotato, si creerebbero corridoi faunistici collegati a parchi fluviali. Il bosco misto è una risorsa di alimenti per animali e umani, fogliame e ghiande, semi, bacche, piccoli frutti come sorbi, sambuchi, meli e peri selvatici. Disposto in file ai margini del fondo e in siepi longitudinali che interrompono i campi coltivati, ha funzione di frangivento e di creare microclimi o cosiddette trappole solari, in cui il calore del sole viene trattenuto al suolo meglio che non in grandi estensioni aperte. Il fogliame portato dal vento si sparge sui seminativi a creare humus. Nel sottobosco si formano stratificazioni di humus forestale che si mescola a quello animale quando gli animali al pascolo nell’adiacente prato stabile vi possono aver accesso cercando, come in natura, riposo all’ombra, con beneficio per le piante stesse.

È una grande risorsa di legname combustibile e da lavoro, necessita di lungo tempo per crescere e produrre piante mature.

2)prato stabile. Può essere attiguo al bosco come seconda cintura permanente intorno ad un fondo agricolo, carrabile, come cavedagna di servizio ai campi, od occupare ritagli di terreni marginali fuori squadro agrimensorio, o terreni meno idonei per struttura alla coltivazione. Il prato stabile può essere sfalciato da fieno o pascolato in rotazione. Sequestra grandi quantità di carbonio fissandolo al suolo. È anch’esso una nicchia ecologica con propria vita vegetale ed animale.

3)seminativi  a rotazione tra prati artificiali e coltivi, arborati di frutta, viti e/o  olivi

Le unità di misura che utilizzo sono in rapporto alla capacità manuale umana ed a quella animale, integrate con la meccanica di attrezzi e anche piccoli mezzi a motore, frutto di un progresso tecnologico che non va rinnegato a priori, ma utilizzato al meglio ai nostri scopi. La meccanizzazione spinta dell’agrochimica industriale moderna ha permesso il grande travaso di manodopera dalle campagne verso le città, ha di fatto spopolato luoghi che un tempo risuonavano delle voci e della presenza umana sul territorio naturale, nelle fattorie e nei piccoli paesi rurali di contadini ed artigiani.

Ora, se vogliamo ripopolare queste campagne non ci servono grandi trattori e mezzi, quanto piccola meccanica agraria e attrezzi manuali, adatti a piccole superfici di un gran numero di campi e non già a grandi estensioni.

La pratica antica identificò un’agrimensura naturale a misura d’uomo ed animale nello iugero di circa 2500 metri quadrati, che era la superficie media arabile in un giorno da un paio di buoi “aggiogati”, ma variabile a seconda della tessitura del terreno, dei luoghi e della qualità degli animali trattori. È la biolca padana (bi-bulca: due buoi) di circa 3000 metri, la tornatura romagnola sui 2000, l’acro inglese di 4000, il morgen tedesco di 2500 metri, come lo iugero classico.

Una misura che, se dovuta affrontare a mano, non spaventa come l’immensità dei grandi campi aperti moderni, creati in funzione delle grandi macchine a combustibili fossili e dei concimi chimici, dei grandi allevamenti con migliaia di capi.

La saggezza contadina antica da sempre dice : “Ammira i grandi latifondi, ma per te stesso coltiva un piccolo campo”. Massima raccolta dagli agronomi, scienziati, filosofi illuministi preindustriali e precapitalisti , che si interessavano di Economia Civile e proponevano, per lo sviluppo di una Nazione, la distribuzione della terra ai Contadini, in proprietà o possesso a lungo termine. Non grandi estensioni, ma piccole unità poderali a misura di braccia umane ed animali, sufficienti a mantenere una famiglia, coltivabili a policolture miste, cui dedicare la massima cura ed attenzione.

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Cultura dei Campi Coltivati tra passato, presente e futuro

Intervento al convegno su Bioregionalismo, Ecologia Profonda e Spiritualità Laica, tenuto al Ribalta di Vignola il 9 febbraio 2013

Sono agricoltore di scuola e tradizione organica, agronomo e storico autodidatta che, oltre alla pratica empirica, ricerco e studio da decenni  la mia materia, l’Agricoltura.

Che non intendo solo come semplice coltivazione biologica o biodinamica dei campi, o un settore economico del vigente sistema di mercato capitalista globale, ma nella sua piena accezione originaria latina del termine il quale significa: cultura dei campi coltivati, ossia arte/mestiere, scienza, società, economia e spiritualità; cultura del rapporto diretto tra uomo  e  madre terra, tra humanus e humus, rapporto di humilitas, virtù opposta alla superbia: l’uomo è terra e tornerà inumato alla terra come ceneri di azoto, fosforo, potassio …

La mia conoscenza agronomica ed ecologica segue la linea storica che va dai cacciatori-raccoglitori agli allevatori e coltivatori, in cui i primi si evolsero, tutti anche artigiani, migliaia di anni fa, creando quella cultura dei campi coltivati, arrivata sino a noi pochi decenni orsono, come Civiltà Contadina. Non la civiltà urbana, perché gli agricoltori non vivono nelle città e quella rurale le fu sempre parallela e complementare.

I primi scrittori di agricoltura dei quali sono rimaste le opere sono latini e riportano, a loro dire, un sapere che già fu loro tramandato da tempi remoti. Ad uno di questi letterati agronomi  si deve la definizione originale  dell’Agricoltura: “Non solo è un’arte, ma anche necessaria e di assoluta importanza; ed è anche scienza, di quello che sia da coltivare e produrre in ciascun campo, affinché la terra renda in perpetuo il massimo dei frutti”.  (“Non modo est ars, sed etiam necessaria ac magna; eaque est scientia, quae sint in quoque agro serenda ac facienda,quo terra maximos perpetuo reddat fructus”.( Marco TerenzioVarrone: De re rustica- Libro I, cap.3)

La sostenibilità agro ambientale che oggi andiamo cercando era già caratteristica degli antichi fondi agricoli, complessi organismi viventi, unità di ecosistema coltivato, che riproducevano i cicli perenni e rinnovabili di quelli naturali e selvatici.

Nel medioevo  solo i monaci cistercensi  mantennero memoria e pratica dell’Agricoltura classica, sino a che, nel Rinascimento,  il corpus di testi noti nell’insieme come De Re Rustica furono riscoperti e rivalutati e divennero il fondamento della nuova scienza agronomica europea, la quale fu diffusa, nei secoli successivi, da diversi autori e scuole che  ne ripresero e rielaborarono principi e contenuti, sul modello della villa rustica autosufficiente romana, diversa dal latifondo schiavista.

Quindi, intorno alla metà dell’Ottocento, l’Agricoltura organica, giudicata arretrata, superstiziosa e legata all’ancien regime, di cui era il fondamento dell’economia, fu sconfitta a livello accademico e politico dal  materialismo scientifico, il quale vi oppose il “progresso” dell’agrochimica inorganica ed industriale moderna che oggi predomina.

Nonostante i profondi cambiamenti politici, culturali, sociali ed economici portati dalla rivoluzione liberale borghese nell’800, l’agricoltura organica tradizionale è però sopravvissuta resistendo nelle campagne non solo sino a pochi decenni fa, ma è continuata, in forme e metodi aggiornati come contemporanea agricoltura biologica e biodinamica.

Dalla fine anni ‘70 si parla inoltre di agricoltura permanente, o Permacultura e di Agro-ecologia, che non sono affatto nuove scienze, ma hanno radici profonde sino a quei cacciatori raccoglitori da cui tutto ebbe origine e si inseriscono quindi in un filo conduttore storico e millenario di tempo ciclico, e non lineare  di sviluppo illimitato e del sempre più nuovo che avanza.

Questo per il semplice motivo che le cosiddette leggi naturali , le quali sono dedotte e misurate dall’osservazione dei cicli rinnovabili e perenni di energia solare e materia vivente, sono immutabili nel tempo e il rapporto uomo-terra madre non se ne discosta, né può farlo, senza uscirne dai suoi parametri biologici, fisici e chimici, andando contro natura.

La catena alimentare è per noi umani di latitudini temperate la catena del pascolo e del detrito, formata da anelli che sono agganciati l’un l’altro in interrelazione e che non possono essere infranti dall’uomo.

In particolare, l’anello tra vegetali ed erbivori ruminanti, che trasformano la materia vegetale in humus fertile, è il fondamento dell’agricoltura organica. Oggi abbiamo sostituito l’humus fertile con i concimi chimici, tolto agli erbivori ruminanti la loro funzione primaria, li abbiamo rinchiusi in allevamenti intensivi  come macchine da carne e da latte e il loro letame è considerato rifiuto industriale, carico com’è di residui di antibiotici.

Altre considerazioni per completare il quadro del mio discorso.

L’agricoltura organica tradizionale ed i suoi modelli sono finiti in secondo piano e progressivamente il loro impianto si è disgregato, colpiti al cuore da leggi, burocrazie e tasse del sistema di mercato capitalista “liberale”ed industriale, basato sul profitto e lo sfruttamento e non più sulla rendita.  Sono mutati paesaggi, società ed economia, in modo definitivo dalla seconda metà del secolo scorso, ma questo processo era iniziato, lento ed inesorabile almeno cent’anni prima, qui in Italia, alla sostituzione del sistema monetario aureo, sovrano e stabile, legato al valore del grano e del pane, delle merci artigiane, dell’economia produttiva reale, con quello cartaceo a inflazione e debito illimitato, utile solo alla speculazione finanziaria  e usuraia.

Culture rurali millenarie non si abbattono così facilmente con una rivoluzione da parte di una minoranza di ricchi borghesi e neoaristocratici che conquista il potere: per cambiare il paradigma mentale dell’uomo, strappandolo dalle sue radici native in natura, dalle sue conoscenze pratiche e modo di vita, è occorso un condizionamento applicato a più di una generazione, sino a cancellare ogni memoria storica e recidere il filo che unisce uomo a Natura. Molto più difficile è riallacciare ora questo filo.

Il nonno contadino è distante anni luce dai nipoti cittadini, come lui lo era già, pur molto meno, da suo padre e suo nonno, già “corrotto” dai tempi nuovi e dall’avanzare  ed imporsi di quello che per me,  e non solo, per vari suoi aspetti ed effetti è un falso progresso perché deriva da un modello di sviluppo illimitato in un sistema come quello terrestre che è invece limitato e a ciclo chiuso.

La memoria storica è comunque nei cromosomi, siamo parte inscindibile della natura terrestre,  alla quale il modo di vita urbano moderno è sostanzialmente artificiale e alieno, memoria che rimane  brace sotto la cenere di archetipi lontani di vita naturale, cui questo odierno sistema economico preclude però di fatto ogni via di realizzazione.

Mi riferisco a quell’istinto “primordiale” che indirizza vari individui, oggi, ad un ritorno onirico alla terra e in seno alla vita naturale, ma che si traduce nei fatti, spesso, in avventurismi inconcludenti e parziali nei risultati, che causano anche delusioni, nel tentativo di creare ex novo un modo di vita rustica , ma sulla base di paradigmi propri della cultura progressista urbana: chi va in campagna si porta dietro il proprio modello cittadino cui è stato educato, le proprie abitudini cittadine, proprie interpretazioni delle leggi naturali, creando ibridi con compromessi e contraddizioni, i quali risultano poi di fatto o in situazioni estreme o nello rientrare negli schemi da cui si era cercato di uscire.

Ci si aggrappa anche ad altre culture lontane, spuntandone alcuni suggestivi elementi ed adattandoli, innestati a nuovi impianti, si formulano nuove teorie ideologiche, per colmare un vuoto che indubbiamente si è formato nello sviluppo di una visione materialista della realtà. Stiamo cercando nuove identità.

Oggi, l’agricoltura biologica è settore del mercato di cui sta alle regole, essendo pressoché totalmente incapace, quanto impossibilitata, di esprimere una propria autentica cultura ed economia rurale. Si producono monocolture industriali con “metodo” biologico, sacrificando il creare unità organiche di ecosistema coltivato, come si dovrebbe in teoria, perché sarebbe solo una spesa che non produce profitto e neppure reddito, ed oggi, il fine del lavoro agricolo, anche bio, non è il lavoro in sé a produrre auto sostentamento e surplus per il mercato, a produrre un modo di vita più autentico e felice in cui prendersi  cura dell’ambiente e dei nostri simili, ma il denaro, i cui valori non coincidono con quelli naturali, etica compresa.

 Certo è che, nonostante il paradigma classico portante della villa rustica, non si tratta affatto, da parte mia ,di sostegno nostalgico del modello economico e sociale antiquato, dei contadini mezzadri  del podere tosco-emiliano. Ma la medesima agronomia ed economia era comune anche a contadini liberi, senza padroni, con possesso quindi diretto di propri mezzi di produzione, associati per convenienza reciproca  in rete solidale e locale di villaggio, con baratti e scambi d’opera, con la disposizione di terre ad uso civico.

Così fu, ed è un bene che la struttura dell’antico classismo feudale sia decaduta, ma si è buttata via l’acqua sporca con il bambino,anzi il contadino, all’imporsi di quel binomio neoclassista di borghesia capitalista e proletariato, nuovi padroni e nuovi servi, alienati, questi ultimi, di ogni mezzo proprio di produzione per auto sostentamento, consumatori passivi, risorsa umana lavorativa inurbata da sfruttare in  economie industriali.

È andata così, come contadini, paisan, campesinos, nativi cacciatori, pescatori e raccoglitori del pianeta, siamo dalla parte dei vinti, avrebbe potuto andar meglio, se il modello di sviluppo avesse con lungimiranza e arte di buon governo tenuto conto che chi lavora la terra, chi vive in natura, ha un’importanza fondamentale nella custodia e gestione degli ecosistemi coltivati e naturali, e questo a vantaggio anche e non ultimo di chi vive in città. Non stiamo parlando dei moderni imprenditori agricoli con mega trattori e diserbanti, dei bovini chiusi nei lager, munti e macellati come oggetti senz’anima.

Nei tempi che ci attendono, in cui l’agrochimica basata sul petrolio avrà una fine, e si dovrà per forza rivolgere lo sguardo indietro alla terra che ci nutre, ci accorgeremo che tanta è andata sprecata sotto cemento ed asfalto, molta altra resa sterile. Questa crisi economica che è di sistema e non di mercato, non solo sta creando povertà e disoccupazione ma rivela tutta l’insostenibilità ambientale ed umana del sistema stesso e richiama la necessità di soluzioni possibili che non sono certo l’emigrazione su altri pianeti o le modificazioni genetiche di piante ed animali. Piuttosto potrebbe essere il riprendere in considerazione economie locali a sovranità alimentare e monetaria, in cui l’uomo sia ricollocato al centro di modi di vita più naturali,  consapevoli che è la terra fertile la base della nostra sopravvivenza e prodursi alimenti e materie prime organiche in modo sostenibile e rinnovabile è, da sempre,  ricchezza della civiltà umana.



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Terra Lieta

Terra Lieta

L’humus è una sostanza che si forma dalla materia vivente la quale, a fine ciclo biologico, si decompone. In condizioni particolari può essere stabile anche per secoli. Dall’humus rinasce la vita vegetale che sostiene l’intera catena alimentare. Eterna morte e rigenerazione, in cui si nulla crea dal nulla e nulla si distrugge definitivamente.

“Humus, humanus, humilitas, humatio” hanno la stessa radice etimologica. Humus in latino vuol dire terra, humanus  significa che l’uomo è fatto di terra e che la sua umile condizione è quella di ritornare inumato alla terra madre. L’umiltà di chi lavora la terra o vive in natura è proverbiale, pur disprezzata dalla vanità del cittadino borioso e ignorante come sottosviluppo ed arretratezza, contadino o selvaggio sono epiteti dispregiativi . Umiltà villana di chi fa nascere semi e vitelli  così come il contadino ha il potere saturnio della falce che toglie la vita:  lavora con le energie di una Creazione che non è avvenuta una tantum seimila o milioni di anni fa ma che è continuamente in atto, ogni secondo in cui pulsa l’universo, ogni giorno e notte, fase di marea e di luna, solstizio od equinozio a scandire il tempo reale di piante, animali e uomini, che è ciclico.

Esistono diversi tipi di humus, almeno sette, che si differenziano tra loro per proprie caratteristiche quali reazione acida o alcalina, rapporto carbonio/azoto, grado di saturazione basica relativa alla capacità di scambio cationico, struttura del terreno, vita biologica, umificazione e mineralizzazione. Di questi tipi di humus uno solo è adatto alla crescita ottimale della maggioranza dei vegetali di cui ci nutriamo ed è definito “mull calcico” o “delle praterie” o “agrario”.

Per comprendere la similitudine  tra humus delle praterie e humus agrario si consideri che nelle praterie dei climi temperati, dal Nord America, all’Europa, all’India e altrove, hanno pascolato per millenni enormi branchi di bufali, bisonti e uri e che  il loro letame è il  fondamento della fertilità organica agraria da altrettanti millenni. “Laetamen”,  significa “ciò che rende la terra lieta di messi”. “Laetus”, in latino, è equivalente di pingue, fertile e fecondo. Il nesso è evidente. L’umano sentimento di gioiosa serenità, la letizia (laetitia), deriva dalla prosperità e armonica bellezza di campi ben coltivati ad arte e dall’abbondanza dei raccolti. A dispense piene, si celebra il benessere con danze,  musiche e poemi, si ornano corpi, indumenti, attrezzi ed utensili, le dimore e i villaggi rurali degli uomini: coltura e cultura sono in origine la stessa parola. “Civiltas” è diversa e propria della “civitas”, la città murata.

Questo humus particolare si è formato quindi dall’azione del pascolo dei grandi erbivori ruminanti, dalle loro deiezioni e carcasse, di pelli, ossa, corna, unghie, sangue decomposte al suolo in sinergia alla materia vegetale morta e ai minerali del terreno. Il termine “uro”, temuta bestia descritta da Cesare nel De Bello Gallico e rappresentata nei graffiti preistorici, estinta da circa quattro secoli,  progenitore selvatico degli attuali bovini domestici, deriva dal tedesco “aurochs” che significa “bue delle golene fluviali”: questi animali, come i bufali e i bisonti, transumavano stagionalmente lungo gli assi dei fiumi dalle foci alle sorgenti, creando un proprio ecosistema ricco di risorse alimentari  atte al loro nutrimento. Non solo erbe foraggere, ma anche fogliame di  arbusti e piante, ghiande, frutti, ortaggi  e cereali selvatici sono il loro cibo originario nell’eden primordiale in cui  parte dell’umanità nostra genitrice ha trovato le condizioni ideali per sopravvivere ed evolversi.Le percentuali di azoto, fosforo e potassio necessarie al frumento sono in proporzione simili a quelle contenute nel letame di questi erbivori. Certo è che in natura, nei millenni della loro esistenza, i bovini non hanno mai mangiato soia, tantomeno ogm, come oggi sono costretti negli allevamenti industriali.

La catena del pascolo

I ruminanti hanno un sistema digerente a quattro sacche in cui, nelle prime tre, agiscono batteri, funghi e protozoi  presenti anche nel suolo e introdotti con i foraggi e solo la quarta funziona simile al nostro stomaco. La materia vegetale digerita da un ruminante ritorna al terreno come potente fertilizzante naturale in funzione della crescita e salute delle piante di cui il bovino stesso si nutre: il ciclo è chiuso, anello fondamentale della catena alimentare. L’erbivoro è in simbiosi ai vegetali di cui si alimenta, è organico ad essi, in armonia naturale, allo stato brado.

Il letame non è merda acida come la nostra e, a differenza di quello di cavallo o asino, i quali sono  erbivori monogastrici, i semi sono digeriti e quindi non rinascono, evitando al coltivatore anche maggior fatica a diserbare. Il cavallo, come altri animali e uccelli, ha la funzione ecologica di diffondere semi  che cadono a terra con un corredo nutritizio a favorirne germinazione e sviluppo, madre natura è intelligente.

In un prato pascolato da ruminanti o ben fertilizzato con il loro letame maturo, i foraggi sono per questi animali non solo più appetibili ed odorosi, ma anche più nutrienti e a vantaggio della loro salute. La buona erba e il buon fieno si avvertono nel gusto e colore del latte, del burro e del formaggio, nella qualità delle carni. In quel prato rivoltato con facilità dalla zappa o dall’aratro crescono un frumento grasso che fa profumare il pane ed ortaggi, legumi, frutta, sani e ricchi di sostanza e sapore. Con compost solo vegetale non si ottengono gli stessi risultati: l’humus agrario, come nei pascoli selvatici di un tempo, è indissolubilmente costituito da materia organica decaduta di animali e piante. L’ecologia non è un’ideologia, ma una scienza.

Nel prospero ecosistema originario, più relativamente recente nel tempo della Terra, i produttori primari autotrofi, i vegetali , che dipendono direttamente dall’energia solare e i consumatori primari eterotrofi, gli erbivori, chiudono l’anello fondamentale della catena alimentare terrestre di cui la specie umana è commensale (consumatore secondario) insieme ad altri onnivori, granivori, frugivori, carnivori e detritivori. I nostri antenati cacciatori e raccoglitori hanno trovato abbondante nutrimento, carne e vegetali selvatici, per decine di migliaia di anni soprattutto e principalmente nell’ambito degli ecosistemi fluviali del pascolo, non nelle fitte foreste, nelle pietraie aride, nei deserti, nelle terre innevate, nelle torbiere o nelle paludi, nonostante l’uomo si possa adattare a vivere anche in condizioni  e diete più estreme, ovunque sul pianeta. L’assunzione di proteine animali ha permesso e permette lo sviluppo del sistema nervoso e cerebrale e quindi dell’intelligenza.

Agri-Cultura

Prima di Giove non v’erano coloni che coltivassero la terra, né era lecito delimitare i campi tracciando confini: tutto era in comune e la Terra, [lett.Tellus: la dea madre] senza che le fosse richiesto, produceva spontaneamente” cantò Virgilio nelle su Georgiche dell’età dell’oro o di Saturno, quando gli uomini erano cacciatori e raccoglitori.

Il mito precristiano dell’uscita dal paradiso terrestre non è quello biblico della tragica maledizione di Eva e di Caino agricoltore, proprio di una cultura di pastori erranti e predoni del deserto, ma quello del padre Giove, il quale, declamò ancora il poeta, per evitare che il suo regno languisse nell’indolenza “quando vennero a mancare le ghiande,  i frutti delle selve sacre e persino Dodona non diede più cibo” volle che gli uomini  acuissero il loro ingegno ed impose di dissodare ad arte i campi. “Cerere per prima educò gli uomini  a coltivare con l’aratro la terra” e “la fatica ostinata  e le necessità, che urgono in circostanze difficili, vinsero tutto”.La precessione dell’asse terrestre determina verosimilmente sul nostro pianeta cambiamenti climatici: circa 13.000 anni fa, quando l’ultima glaciazione  volgeva al suo termine, la stella polare era Vega, Thuban, alfa del Drago indicava il nord al tempo di Cheope. Cambiamenti di energie cosmiche e terrestri, elettromagnetiche e psichiche, “panta rei” nell’eterno movimento.

Le grandi civiltà del passato si sono evolute tutte lungo valli fluviali fertili dove esistevano le migliori condizioni di sopravvivenza, ambienti in cui i cacciatori-raccoglitori transumanti al seguito dei ruminanti selvatici divennero allevatori e coltivatori sedentari mettendo a frutto la loro esperienza e conoscenza del grande libro aperto natura e dei suoi segreti, trasmesse di padre in figlio, di generazione in generazione. Addomesticare ed allevare bestiame fu per necessità, non per ingordigia o crudeltà. Da chi mio padre apprese e mi trasmise il valore fondamentale della stalla e del letame per la salute e prosperità della terra non fu da un testo scolastico, ma dai nostri antenati agricoltori  e contadini che si perdono nella notte dei secoli.

I principi naturali non sono soggetti all’idea moderna di tempo lineare e di progresso illimitato e, nonostante le manipolazioni genetiche attuali finalizzate a profitto lucrativo e potere, semi e bambini da sempre nascono nello stesso modo; gli attrezzi manuali dei contadini sono da millenni gli stessi, aratro, zappa e falce, prima dei trattori meccanici i buoi, prima della agrochimica tutta l’agricoltura era organica. Il “biologico” non è una nuova invenzione, è una tradizione millenaria di buona e corretta Agricoltura con la maiuscola.

Il mondo rurale, di cacciatori, pescatori, raccoglitori, allevatori, coltivatori e artigiani del legno, dell’osso, della pietra, del ferro e metalli, dell’argilla, del cuoio e pelli, dei tessuti, ha visto nascere e morire civiltà urbane ed è arrivato sino alle soglie delle città moderne, come immobile nel tempo. L’economia agraria, ossia la conduzione ad arte di un fondo agricolo, in cui ogni cosa ha un suo ruolo, funzione  e valore intrinseco, non risponde però ai parametri del profitto speculativo proprio della moderna agrochimica industriale delle monocolture e del suo “libero”mercato controllato dalla finanza delle multinazionali, che è quello che ha sfregiato le campagne e distrutto le culture rurali native un po’ ovunque. Non è “libertà” sia sfruttare in questo modo risorse umane e naturali.

Se per millenni cultura rurale e civiltà urbana hanno convissuto parallelamente e complementari, oggi la città senza mura ha compreso nelle sue leggi economiche, civili e sanitarie le campagne, ne ha mutato non solo paesaggi ma anche identità, ne ha costretto la gente nelle sue fabbriche, uffici e negozi a servizio del suo sistema di lucro, tasse e consumismo di lussi e sprechi. Altri, meno fortunati, stentano nelle bidonville o migrano per il mondo in cerca disperata dell’imperante “sogno americano”. Altri ancora, all’impatto con il “progresso” muoiono di fame. Raro che un vecchio contadino, come ogni nativo di madre terra, abbiano abbandonato volentieri la  vita libera in natura per inurbarsi senza rimpianti a parte la miseria cui furono ridotti da padroni, colonizzatori  e governi.

Non furono allevatori ed agricoltori a fondare le città e le loro civiltà, per il semplice motivo che in città non ci possono vivere, non ci sono campi da coltivare e pascoli per il bestiame. Le città furono sempre per signori della guerra, potenti e ricchi, industriali di manifatture e opifici, mercanti e banchieri usurai di “borgo”e loro servi e quindi da essi fondate.

Economia contadina ed economia liberale

Le famose praterie nord americane produttive di enormi quantità di cereali per decenni e decenni, hanno dovuto la loro fertilità ai bisonti che da tempi immemorabili vi hanno vissuto prima di essere  sterminati dall’ignoranza e dall’avidità dei portatori di economie liberali e capitaliste. Simile politica che ha sterminato  noi  contadini europei e le nostre  piccole stalle, eclissando quella che oggi, nei musei, si definisce “Civiltà Contadina”. In queste piccole stalle, in cui ogni animale era chiamato per nome, il numero di capi era mantenuto da vita e riproduzione in equilibrio alle superfici coltivate secondo il sistema  delle rotazioni foraggere: ogni anno, solo i capi eccedenti le risorse del fondo venivano ceduti o destinati al consumo. Questo era il modo di conduzione tradizionale, non quello moderno dei grandi allevamenti da ingrasso o da latte, che ha fatto del periodico lusso del consumo di carne un insano diritto quotidiano di massa. Il bestiame poi non era sempre tenuto nelle stalle alla catena, come predica la moderna zootecnia dell’unifeed a mais e soia, ma condotto anche al pascolo, oltre che impiegato come forza motrice. Le vacche si accoppiavano con i tori e non erano inseminate artificialmente né i loro ovuli trapiantati su altre vacche, il vitello veniva lasciato più a lungo sotto la madre e progressivamente svezzato continuando a mungere per averne il latte da consumo e trasformazione, non esisteva latte in polvere come oggi anche per neonati. La dieta dei bovini integrava stagionalmente fogliame, ortaggi da radice, cereali di seconda qualità, crusca, la prima qualità era per gli umani. Perché tutto questo non si fa più? Perché non rende profitto al sistema delle banche e della crescita illimitata, ragion per cui la mezzadria fu alla fine abolita nel 1964 per avere manodopera operaia e consumatori, ma ci vollero oltre cent’anni fino a quella data, a colpi di “tasse sul macinato” per far cadere definitivamente l’antica economia rurale di autosufficienza contadina e la sua civiltà. Quanto era utile un contadino a far girare denaro se si faceva tutto in  casa? Accumulava ricchezza sotto il materasso senza spendere se non in nuovi investimenti produttivi di attrezzi, bestiame, strutture e terreni. Ostacolo per lo sviluppo economico liberal borghese “noveau regime”,  contadini e borghesi, almeno dal tempo dei liberi comuni, sono nemici storici. Il popolo contadino non partecipò ai “liberali”moti unitari nazionali, li subì, come già il terrore e i saccheggi dei “liberali”rivoluzionari francesi. Quando inutilmente insorse, dopo l’unificazione militare  e dittatoriale della penisola italiana, lo fece in nome degli antichi sovrani di corti splendide e di buoni governi illuminati che furono, a confronto, “paternalisti” protettori dei loro contadini.

La Vacca Sacra

Il fatto che la vacca, il toro e il bue siano stati deificati ed assunti in cielo come splendida costellazione zodiacale,  il Toro, è perché fu loro consapevolmente riconosciuto il ruolo primario di rendere la terra fertile a produrre gli alimenti fondamentali per il genere umano, frutta, ortaggi e cereali, oltre che latte e carne.

Gli antichi culti agrari  vanno dal Bue Api egizio  all’India Vedica del toro Nandi veicolo di Shiva, di Krishna Gopala Govinda (protettore o guardiano del bestiame), cresciuto in un villaggio di allevatori di mucche e sposo di Radha-Lakshmi, reincarnazione della Gran Madre, mungitrice di vacche. Quella Gran Madre nata dalla spuma del latte cosmico, dalla nostra galassia (gala in greco è latte) la Via Lattea. Gran Madre che apparve ai Lakota come la Donna Bisonte Bianco, racconta Alce Nero. La simbologia traspare postuma nel cristianesimo stesso, in cui il Cristo, in uno dei vangeli, viene fatto nascere in una stalla riscaldata da un bue e da un asino.

Nei loro “De Re Rustica”, il corpus dei primi trattati di Agricoltura a noi pervenuti, scritti circa duemila anni fa, Varrone e Columella riportano la testimonianza che in Italia, o Vitalia, terra dei vitelli, in tempi già a loro antichi, uccidere un bue era passibile di pena di morte. Entrambi gli autori basano la buona pratica agronomica sulla presenza indispensabile del bestiame sul fondo, non solo con funzione di energia motrice e quale fornitore di alimenti e cuoio. L’Agricoltura “classica”,  definita da Varrone “non solo un’arte, ma anche una scienza di somma importanza, che ci dice cosa e come coltivare, affinché la terra produca in perpetuo abbondanza di frutti”,  era un sistema organico a ciclo chiuso rinnovabile, perenne e sostenibile, diverso se non opposto già allora dal sistema dei grandi latifondi a sfruttamento industriale, colonialista e schiavista di risorse umane e naturali. Quest’ultimo creò enormi ricchezze per pochi intimi al potere imperiale, distruzione di ecosistemi, povertà e miseria per molti contadini costretti ad inurbarsi, crisi inarrestabile di quella che fu un’economia di mercato globale.

Ripresa e risorta dal Rinascimento, con la riscoperta nel 1417 di quella bibbia agronomica che fu il De Re Rustica dell’iberico Columella, l’Agricoltura classica, in un prosieguo di continuità ideale tra antico e moderno, costituì sino alla rivoluzione francese e oltre, sino alla caduta dei regni e ducati sovrani italici, l’ossatura teorica delle economie agricole “ancien regime”a base di moneta aurea. Economie protette da dazi, locali ed autosufficienti poi travolte dal nuovo corso liberal borghese il quale impose banche private e moneta cartacea inflazionata, libera impresa e libero mercato industriale, società per azioni, borse merci e speculazione finanziaria, trasformando i contadini in proletari deificati dal marxismo. Da oltre cento cinquanta anni sino al mercato globale odierno. Prima si diceva: meglio mille contadini proprietari dei loro mezzi di produzione, come erano,  che mille braccianti, meglio mille telai femminili in casa che mille operaie sfruttate da un padrone borghese. I mercati erano ricchi di infinite opere uniche d’arte manuale e ingegno, non di prodotti tutti uguali fatti a macchina, senz’anima. Per capire ciò che sta accadendo oggi occorre una visione più ampia della Storia.

In tempi attuali, Vandana Shiva, leader a livello mondiale del movimento di agricoltura organica, in un suo discorso trascritto, “In praise of Cowdung” (In lode allo sterco di vacca- 2001), enfatizza con chiarezza sia la funzione fondamentale dei bovini in un ciclo agrario perennemente rinnovabile e sostenibile sia come i bovini e il loro letame abbiano permesso all’India il supporto alimentare di una civiltà millenaria, ragion per cui la vacca, nella religione induista è mantenuta simbolicamente sacra.

Cornucopia 

Se Rudolph Steiner fa del corno letame il principio omeopatico della fertilità del terreno di un’azienda agraria concepita come un organismo vivente a sé, la Cornucopia, ossia il corno bovino retto dalla dea Fortuna o Abbondanza, da cui esce ogni frutto della terra è l’antico simbolo dell’Agricoltura classica, in cui il “fundus” agrario, unità economica e giuridica  a ciclo chiuso ed autosufficiente era in sé “fundamentum” della vita dell’uomo in campagna. Questo quando Agricoltura non significava mera coltivazione dei campi come riduttivamente oggi, ma Cultura dei Campi Coltivati,  quale è la sua vera etimologia: cultura e coltura sono in origine la stessa parola, colto è coltivato ma anche erudito e saggio, ornato ed abbellito riferito alla campagna fiorente, culto era la religiosa devozione per Madre Terra e Padre Cielo, Tellus e Giove, prima ancora Opi e Saturno negli antichi culti agrari italici, i cui rustici dodici dei patroni precedono, nel tempo, quelli incensati degli eleganti templi cittadini. “Templum”, termine di origine etrusca, indicava lo spazio circolare di terra e cielo abbracciato dalla vista dell’aruspice.  Non era ed è la basilica in cui è rinchiusa l’immagine di  un dio trascendente che vive lontano dalla sua creazione, ma l’immanenza del soprannaturale, dell’energia vivente “eterna gioia”, come rimò William Blake.

Questo quando agricoltore era nobile arte e occupazione  di uomini liberi, “pii e virtuosi”, come furono anche “galantuomini”  a testa alta e sguardo fiero i nostri antenati contadini la cui sapienza di vivere a fatica oggi ricordiamo. Perduto od andato reciso, per molti,  è il cordone ombelicale della tradizione nativa del vivere dei frutti della terra madre e del nostro lavoro, non in competizione e antagonismo come oggi ma in rete solidale e cooperativa di autosufficienza a livello di comunità locali, quando l’economia era quella del dono e dello scambio di beni e opere, il peso della moneta aurea equivaleva al peso del grano e del pane, nessuno chiudeva le porte a chiave e la gente, nei campi, cantava al lavoro e celebrava i raccolti e la Vita.

 

 

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